Dieci anni di «Lost». Dieci anni da quando il volo Oceanic 815 si è schiantato su quell’isola misteriosa. Era il 22 settembre 2004, quando negli Stati Uniti viene trasmesso il pilota della serie ideata da J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber. Quasi 19 milioni gli spettatori sintonizzati sulla Abc per quel primo episodio. Eppure all’inizio furono in pochi a scommettere che «Lost» sarebbe sopravvissuta alla prima stagione. Col senno di poi, avevano torto. In sei stagioni e 121 episodi la serie ha conosciuto un successo clamoroso, diventando un cult di portata mondiale. Una scommessa “rischiosa” vinta grazie a una superiorità produttiva e qualitativa da fare invidia alla macchina di Hollywood, ma soprattutto alla follia creativa dei suoi autori. Quel tanto che basta perché, ancora oggi, possiamo parlarne in termini di una serie che ha rivoluzionato e segnato in maniera indelebile la storia del piccolo schermo.
È come se in qualche modo esistesse un “pre-Lost” e un “post-Lost”. La serie della Abc ha cambiato le regole della tv seriale, segnandone il punto di non ritorno e dandole la spinta di cui aveva bisogno per arrivare a competere ad armi pari con il cinema. Nuovi linguaggi, commistione di generi (drama, avventura, fantascienza), un uso esasperante del cliffhanger e quello innovativo di flashback, flashforward e flashside. Ma a rendere intrigante l’idea di Lindelof e Abrams è soprattutto la fusione dei topoi classici della televisione con tematiche esistenziali, filosofiche ed esistenziali: libero arbitrio, destino, vita, morte, redenzione, e l’eterna sfida tra fede e scienza (incarnata dai due protagonisti John Locke e Jack Shepard). Con «Lost» siamo in presenza di uno di quei rari casi in cui è possibile intrattenere le masse raccontando tematiche complesse, veicolate su più piani di lettura in modo da abbracciare un pubblico più che mai stratificato. E se ancora oggi è un capolavoro, forse è anche questo uno dei motivi: aver osato sperimentare, nella forma e nel contenuto, riuscendo però a rimanere popolare.
Ed infatti, lungi dall’essere “solo” una serie tv, «Lost» è stata soprattutto un fenomeno di massa che con il passare delle stagioni è sfociato in un’ossessione collettiva. Il motivo, paradossalmente, è proprio nella sua complessità narrativa. «Lost» è come un grosso puzzle. Per ricomporlo bisogna fare attenzione ad ogni singolo pezzo, anche il più piccolo e insignificante. Per questo chi l’ha visto, non l’ha semplicemente “solo” guardato, ma l’ha vivisezionato, indagato, elaborato le teorie e le ipotesi più disparate a svelarne gli arcani. Mai un telefilm era stato capace di dar vita a forme di consumo così appassionate che vanno oltre lo spazio del piccolo schermo, inaugurando di fatto l’epoca della transmedialità. «Lost» viene trasmesso in tv, ma è sul web che continua a vivere da un episodio all’altro, con siti dedicati (c’è chi ha creato anche un’enciclopedia dedicata, Lostpedia), fanclub, giochi interattivi e addirittura clip extra, i “mobisode”, in grado di aggiungere tasselli interessanti all’intreccio narrativo. L’aspetto dell’interazione tra lo show e gli spettatori sul web è stata una cosa assolutamente nuova, che in alcuni casi ha finito anche per influenzare gli stessi autori nello scrivere le puntate.
Per sei stagioni, «Lost» ha “giocato” a far perdere lo spettatore nel suo intricato labirinto di segreti e misteri, dandogli l’illusione che, alla fine, ogni cosa sarebbe stata chiara: orsi polari su un’isola tropicale, viaggi nel tempo, mostri di fumo, gli onnipresenti numeri (4, 8, 15, 16, 23, 42), gli esperimenti di elettromagnetismo, le statue egizie, gli scheletri di “Adamo e Eva” e i paradossi temporali. Tutto era parte di un meccanismo narrativo talmente contorto e cervellotico, se non a volte confuso, che difficilmente poteva avere una risoluzione completamente soddisfacente. E difatti il finale fa ancora discutere. Criptico o sufficientemente esaustivo? La questione è ancora irrisolta, come del resto lo sono alcuni dei nodi dello show. Ma in fondo va bene così. Perché il cuore di «Lost», oltre gli interrogativi senza risposta, erano i personaggi. Un gruppo di persone in balia dei loro conflitti interiori, anime perse su di un’isola misteriosa che li mette alla prova, concedendo loro una seconda occasione di riscatto. «Lost» è lo straordinario viaggio interiore di questi uomini e queste donne verso la redenzione, il loro ritrovarsi e andare avanti. E il finale “spirituale” non fa che ribadirlo. “Se non possiamo vivere insieme, moriremo da soli”. Insieme, Jack, Kate, Sun, Jin, Sawyer, Juliet, Desmond, Charlie, Claire, Boone, Sayid, Hurley e Locke hanno dato un senso alle loro vite, i loro destini dipendono gli uni dagli altri, anche nell’aldilà.
“Moving on”, dice Christopher Shepard al figlio Jack nel finale. Dovremo andare avanti. Si, ma dove? Come i losties ci sentiamo un po’ orfani da quando è finito. Ed è inutile oggi cercarne l’erede. Semplicemente non c’è. Certo ci sono ottime serie tv in onda che forse senza «Lost» non avremmo mai nemmeno lontanamente immaginato, ma ci sono anche una sfilza di cloni o aspiranti tali che anche quando sembrano avvicinarsi al suo stile (vedi Flashforward, The Event o Alcatraz), finiscono per fallire alla prima stagione. Niente, dobbiamo farcene una ragione, una serie “tipo Lost” non esiste, non ancora. E forse non ci sarà mai. Perché la storia dei sopravvissuti del volo Oceanic 815 e dell’isola che li ha “salvati” è unica, per quello che ha raccontato, per come lo ha fatto, per quanto ci ha fatto discutere, confrontare, scervellare, farci sentire parte di un qualcosa di speciale.
“Io l’ho guardata negli occhi quest’isola e quello che ho visto è bellissimo”
[Credit Photo Cover: ABC]