“Quando la gente mi chiede se sono andato alla scuola di cinema rispondo: ‘No, sono andato al cinema’“.
Basterebbe questa frase per fotografare meglio di una GoPro Quentin Jerome Tarantino, cinefilo prima, regista poi.
Nato a Knoxville (Tennessee) nel marzo del 1963 ma trasferitosi a Torrance (California) all’età di quattro anni, già l’infanzia di Quentin è da film: è da film il nome del padre, Tony Tarantino, attore e musicista di origini italiane che se ne va di casa prima della nascita del figlio; ancor più da film il nome del padre adottivo, Curt Zastoupil, altro musicista. Quest’ultimo è in parte responsabile della folgorazione, anzi del trauma, che Tarantino subisce al primo contatto col grande schermo: nel 1969 Curt lo porta a vedere Bambi e il piccolo Quentin piangerà per giorni ricordando la famosa scena della morte della mamma.
Un trauma che si muta, nel tempo, in passione e poi in ossessione. È per passione che Quentin va praticamente ogni giorno al cinema – specie in quelli che trasmettono gli spaghetti-western, da cui l’amore per Sergio Leone – e trova i primi impieghi: appena maggiorenne, diventa la maschera del Pussycat, cinema a luci rosse di Torrance. Soprattutto, nel 1984, dopo il trasferimento a L.A., trova impiego al videonoleggio Manhattan Beach Video Archives, dove ha la possibilità di rendere infinita la propria (già sterminata) cultura cinematografica. L’altro impiegato del videonoleggio di Manhatan Beach è un certo Roger Avary, che non farà la stessa carriera di Quentin ma sarà fondamentale per la sceneggiatura di Pulp Fiction, una tra le migliori mai scritte da mano umana.

Sempre ai tempi del Manhattan Beach risale l’origine dell’opera tarantiniana di debutto: tentando di pronunciare il titolo originale del film Arrivederci, ragazzi (1987), ovvero Au revoir les enfants, l’au revoir di Quentin diventa costantemente reservoir, che in inglese ha il semplice significato di serbatoio o lago artificiale. Nasce così il titolo Reservoir Dogs e nasce soprattutto, nel 1992, col supporto di Roger Avary e del produttore Lawrence Bender, il ciclo di Tarantino come regista. Le Iene arriva prima in Italia col titolo Cani da rapina, raccogliendo miseri risultati ai botteghini, poi pochi mesi dopo ritorna nelle nostre sale col titolo attuale e il resto è storia. Non che il feedback del pubblico italiano fosse necessario per far capire a livello globale che una cosa come Le iene passa una volta ogni tanto. Il film divide, disorienta e fa anche gridare al plagio per i continui omaggi al cinema di genere, nel particolare e nel generale, sciorinati da Tarantino: è un pubblico che vede ancora con occhio diffidente l’avvento prepotente sulla scena di questo ventinovenne bruttarello e allucinato che regala alla platea ettolitri di sangue e quintali d’ironia. Per la prima volta forse nella storia del cinema, la violenza viene considerata affiancabile all’ironia anche andando oltre il surrealismo o lo splatter à la La casa.
Al cinema di Tarantino si abituerà presto il grande pubblico, perché già da Pulp Fiction (1994) il termine tarantiniano diventerà espressione chiara e discriminante per etichettare un film e la sua adesione al modello di Quentin, spesso scimmiottato più che omaggiato: Guy Ritchie, Eli Roth, Robert Rodriguez, ci hanno provato in parecchi a emulare il suo stile, con risultati perlopiù modesti. Perché per essere come Tarantino bisogna essere fuori, bisogna ragionare in maniera differente, bisogna avere un feticismo: quello che va oltre il semplice culto dei piedi, espresso con costanza in quasi tutti i film (altro trademark di Quentin uomo, prima che regista), e che invece fa la sua epifania ogni singolo fotogramma della filmografia del ragazzo di Knoxville.

Il feticismo di auto-eleggersi divinità di un universo a sé stante, qual è ogni opera tarantiniana, così da imporre le proprie leggi, i propri codici: giocando col tempo, come in Pulp Fiction, o con la misura, come in Kill Bill. Ma anche cambiando la storia, con gli Hitler e Goebbels mitragliati come due fantocci in Inglorious Basterds, o al limite prendendosi gioco di lei, come fatto nell’ultimo prodigio, The hateful eight, che riscatta il deludente ma pur sempre tarantiniano Django Unchained. Perché oltre tutte le disquisizioni tecniche e poetiche, il bello di Tarantino è che lui è come quei fuoriclasse che se non sono in giornata, fanno comunque la differenza, se invece lo sono, apriti cielo.
Chi invece non si è abituata e forse mai si abituerà a Tarantino – tralasciando l’Academy – è la critica tout court, con cui Quentin ha un rapporto controverso già dai tempi del dito medio di Cannes 1994, indirizzato agli imbufaliti giornalisti che avrebbero dato la Palma d’oro a Zhang Yimou. C’è chi dice che Tarantino sia il principe dell’autocompiacimento, c’è chi sostiene che senza il cinema italiano e quello asiatico anni ’70 oggi non avremmo letto nemmeno una riga su di lui. Tutto vero, se non fosse per un dettaglio apparentemente trascurabile: nessuno, nell’ultimo trentennio, è riuscito come Tarantino a fare il diavolo che gli pare con la cinepresa e al tempo stesso a rendere l’uscita di ogni proprio film un evento globale, atteso in Eurasia come in Sudamerica, in Cina come in Australia. Un ex enfant prodige che a 53 anni non arretra di un millimetro, fautore di un’innovazione che si manifesta nell’approccio prima, nella tecnica poi. Perché prima del regista viene l’uomo, cinefilo, folle e appassionato. E prima di andare a scuola di cinema, si va al cinema.