Non un anno semplice, il 1994: un Cavaliere (oggi ex) annuncia la sua discesa in campo, Kurt Cobain decide di farla finita e in una torrida giornata di luglio un pallone calciato dal Divin Codino vola verso il cielo di Pasadena. A complicare ulteriormente le cose ci si mette un trentunenne di Knoxville (Tennessee), un giovanotto dalla faccia da cartone animato e dalla parlantina allucinata che un paio d’anni prima aveva già fatto parlare di sé con un film che, si capiva subito, non era come gli altri. Quel film si chiamava Le iene. E il suo regista, che il mondo conobbe come Quentin Tarantino, decise che in quel galeotto 1994 era giunto il tempo di dare al cinema una spallata così forte che ancora oggi, a distanza di vent’anni esatti dall’uscita di Pulp Fiction – il suo unico vero capolavoro – desta ancora il suo effetto dirompente.
Considerato da alcuni il miglior regista degli ultimi due decenni, di certo Tarantino è da annoverare fra i pochissimi innovatori del periodo. Propiziato da un momento storico in cui i ribelli Abel Ferrara e David Cronenberg tiravano i remi in barca e che vedeva la crisi dei mostri sacri Scorsese e Coppola, Quentin piazzò il suo manifesto al momento giusto. Un exploit che non nasce e muore nel giro di una stagione, ma la cui eco accompagna ancora oggi chiunque si metta dietro una macchina da presa.
Il caos organizzato
Che ci si trovasse di fronte ad un’opera spartiacque, se ne accorse appena un anno dopo un finissimo pensatore come Goffredo Fofi, che in un dialogo con Vittorio De Seta del 1995, definì Pulp Fiction come un film “che parla della morte, dell’assenza e della ricerca di Dio“. Un concetto che fa riferimento non solo alle infinite tematiche accennate o sviluppate dai personaggi di Tarantino, dal cammino dell’uomo timorato alla beffarda morte del pugile Wilson, ma anche al versante tecnico. Quentin scardina le convenzioni narrative del cinema classico, creando un incastro di sequenze apparentemente illogico: dando la morte a Vincent Vega e poco dopo facendolo uscire trionfante dal bar, in maglietta e pantaloncini, Tarantino caccia il dio Crono dai confini del proprio cinema, accettando invece la divinità del Caos nella sequenza della puntura totalmente casuale al cuore di Mia Wallace. A giocare col tempo ci si metterà pochi anni dopo anche Christopher Nolan, con un altro film, Memento, da studiare per bene.
Il dialogo tarantiniano
Se la fotografia sta a Kubrick, l’agilità narrativa a Scorsese, il respiro epico a Coppola e il lirismo a Malick, non c’è dubbio che il dialogo stia a Tarantino. Quante volte in questi vent’anni abbiamo sentito parlare, alle volte in maniera abusata, di dialoghi tarantiniani. Ovvero, della capacità di plasmare un’interazione fra i vari personaggi in grado di intrattenere lo spettatore tramite le sterminate ramificazioni dei discorsi a cui si approda: ogni dialogo creato da Tarantino è una metropoli, in apparenza caotica, in grado di collegare perfettamente le proprie periferie al centro del ragionamento. Dai vezzeggiativi di Tim Roth e Amanda Plummer al passo biblico (inventato) Ezechiele 25,17 di Samuel L. Jackson, dagli europei presi in giro da John Travolta al Mister Wolf di Harvey Keitel che risolve problemi. Una poetica spietata e dissacrante espressa tramite una sceneggiatura dalla puntualità maniacale.
La sindrome della cinefilia contagiosa
Almeno a livello mainstream, certamente ad Hollywood, Tarantino è il primo a riqualificare in maniera incisiva e globale l’universo dei film di genere, quello che spazia dalla blaxploitation anni ’70 (Coffy) a Mario Bava (Cani arrabbiati), e ancora, da Lucio Fulci allo spaghetti-western: suggestioni che verranno sviluppate negli anni a venire, implementate dai richiami al cinema asiatico in Kill Bill.
Quentin si rifà però anche a due opere a cui ha collaborato per la stesura dello script, True Romance (Un vita al massimo) di Tony Scott e Natural Born Killers (Assassini nati) di Stone, uscite circa un anno prima e portatrici del segno tarantiniano.
Impossibile menzionare tutte insieme le citazioni e le parodie riferite a Pulp Fiction, figuriamoci quantificarne l’influenza esercitata sulla produzione del ventennio seguente: gli amici Eli Roth e Robert Rodriguez, Guy Ritchie (Snatch e Lock & Stock), persino gli ultimi Stone (Le belve) e Besson (Malavita). Tuttavia, chiunque cerchi di imitare Tarantino non crea nulla di memorabile. Perchè se c’è una cosa in cui il regista di Jackie Brown non sarà mai in competizione con gli altri è la capacità di esprimere la propria, impressionante, cinefilia con il massimo rispetto verso i suoi miti e la massima dissacrazione nei confronti del mondo reale.
In quel complicato 1994 insomma, Quentin Tarantino crea non solo un’opera spartiacque, ma anche un vero e proprio classico, nel senso tradizionale del termine. Un prodotto che, visto una volta ti lascia perplesso, visto due volte ti irrita, visto tre volte ti illumina.
[Ph. Credits: Andrzej Sekuła/Miramax]