Trentatré centimetri di bronzo placcato in oro 24 carati. Trentatré centimetri che forse valgono poco (295 dollari, circa 200 euro) ma che rendono assai: prestigio, cachet triplicati (per gli attori) e incassi raddoppiati al botteghino (per gli studios). Ma come si vince un Oscar? La risposta più scontata a questa domanda è: “facendo un buon film”. Beh, non sempre. È l’essere visto che fa la differenza. E qui entra in gioco il potere di publicist, esperti di marketing e guru della comunicazione, il cui compito è tracciare le tappe decisive della strada che condurrà – si spera – alla vittoria finale. Uno sforzo mediatico concentrato in pochi mesi dell’anno all’insegna di quel “Per la vostra considerazione”, che ci dice tutto. Perché in fondo lo scopo di questo marketing asfissiante è conquistarsi il cuore degli elettori dell’Academy. Per farlo è essenziale ricordare ogni giorno al mondo che un film esiste e merita di essere premiato. Come? Con tanta pubblicità.

Billboard di Selma / Fonte: Dailybillboard
Billboard di Selma / Fonte: Dailybillboard

Gli annunci a tutta pagina sui giornali, giganteschi cartelloni sul Sunset Boulevard, pop-up online, spot tv in prima serata. Tutto a farsi vanto delle candidature agli Oscar, dei Golden Globe vinti e delle critiche entusiastiche apparse sui giornali, “Spettacolare”, “Il migliore dell’anno”. E, poi, ancora, la spola della star di turno tra un talk show e l’altro, tappeti rossi, feste, proiezioni, panel “Domanda & Risposta”. I regali, no. Quelli sono stati vietati ai membri dell’Academy. A loro vengono spediti solo i DVD dei film, sperando che li vedano. Però qualche gadget creativo da inviare alla stampa e ai circoli dei critici (vedi l’action figure di Birdman!), quello sì. Prendiamo, per esempio, le candidature all’Oscar di quest’anno. La più clamorosa: Boyhood, nato come outsider e diventato in poco tempo un contender. Si è fatto un gran parlare del film di Richard Linklater: una pellicola low budget (2,4 milioni di dollari), girata in 12 anni e con un uscita anticipata addirittura a luglio, saltando tutti gli appuntamenti festivalieri che contano. Una strategia ponderata attentamente dal produttore Jonathan Sehring della IFC Films, che pur non avendo a disposizioni grossi budget, è riuscito ugualmente a mettere in piedi una campagna efficace e imponente per far vedere il film e fare in modo che se ne parlasse a lungo. Di contro, la snobbatura del drama su Martin Luther King, Selma, più che al presunto razzismo dell’Academy si deve alla svista della Paramount che non avrebbe inviato un sufficiente numero di anteprime video agli elettori. Due facce di quella stessa medaglia che si chiama promozione.

Il cast di The Imitation Game in posa al Festival di Toronto
Il cast di The Imitation Game in posa al Festival di Toronto – Credit: Jeff Vespa

La Award Season inizia presto, ai festival di Telluride, di Venezia e di Toronto nel mese di settembre per concludersi il giorno della cerimonia stessa. Chi sceglie di partecipare alla girandola dei festival è consapevole di avere a disposizione una vetrina prestigiosa per mostrarsi al mondo: The Imitation Game è andato a Telluride e Toronto, dove c’era anche La Teoria del Tutto. Birdman ha scelto la combinazione Venezia-Telluride, saltando Toronto. Il passo successivo ai festival solito è l’uscita in versione limitata fino a quando i distributori non sono sicuri di raggiungere l’attenzione del grande pubblico. E questo accade dopo le nomination ai Globes, come è stato per American Sniper. Un’altra tattica da contendenti di alto profilo è invece quella di bypassare completamente la stagione dei festival e optare per un lancio aggressivo a dicembre (vedi Selma). Ci sono poi le eccezioni: Grand Budapest Hotel era a Berlino lo scorso febbraio ed ora concorre al miglior film, stesso dicasi per Boyhood e Whiplash passati dal Sundance 2014. Come a dire che non si riduce tutto solo alla tempistica, e che se esci prima puoi avere le stesse chance di chi esce dopo. E, poi, non dimentichiamoci che anche la qualità di una campagna è uno degli aspetti da non sottovalutare nel processo, così come la posizione che un film o un attore riescono a conquistarsi all’interno di un movimento sociale o storico più ampio. Boyhood, ad esempio, è stato fin da subito “etichettato” come una rivoluzione nella settima arte, mentre Selma ha usato la tattica dell’importanza storica (e di Barack Obama) per conquistarsi il sostegno. Eddie Redmayne ha aderito all’Ice Bucket Challenge in favore della SLA, la stessa malattia che ha colpito il fisico Hawking che interpreta ne La Teoria del Tutto. Un gesto nobile contro cui varrà poco la carta del “ruolo da comeback” giocata invece da Michael Keaton con Birdman.

Il "comeback" di Michael Keaton premiato con un Golden Globe
Il “comeback” di Michael Keaton premiato con un Golden Globe – Credit: Kevin Winter/Getty Images/AFP

Tutti questi sforzi se nel migliore dei casi, richiamano l’attenzione dell’Academy su lavori virtuosi, nel peggiore, la spinge a scegliere i meno meritevoli. In ogni caso costano, e tanto. Gli Studios spendono ingenti somme per assicurarsi una chance di vittoria. I numeri esatti variano ovviamente da un film all’altro, ma in media si possono spendere fino a 10 milioni di dollari per una pellicola candidata all’Oscar. Almeno la metà di quel denaro viene assorbito dalla pubblicità (un annuncio sulla prima pagina di The Hollywood Reporter durante la Award Season costa la bellezza di 72mila dollari). Il resto viene spalmato tra: i costi dei consulenti PR (pagati tra i 10mila e i 15mila dollari, più bonus in caso di nomination o vittoria), quelli delle copie del film su DVD da inviare ai membri dell’Academy e ai critici, e infine quelli relativi a trasporti, pernottamenti, trucco e parrucco di star e registi nominati che partecipano agli eventi chiave della stagione (servono solo 3500 dollari per preparare un’attrice al tappeto rosso, 2mila per la controparte maschile). Se ne vale la pena? Può essere. Anche se va detto, dopo un Oscar l’aumento di incassi è abbastanza limitato: la stima è di 3 milioni di incremento. Molto più remunerativo quello che segue una vittoria ai Golden Globes, che vale ben 14,2 milioni.

Dietro la vittoria di Roberto Benigni nel 1999, c'era lo stratega numero 1 di Hollywood: Harvey Weinstein (a sinistra)
Dietro la vittoria di Roberto Benigni nel 1999, c’era lo stratega numero 1 di Hollywood: Harvey Weinstein (a sinistra) – Credits: Alex Berliner/Berliner Studio

Laddove tutto questo non bastasse si può sempre ricorrere a tattiche aggressive – che i politici conoscono bene – per affossare deliberatamente un avversario. Il classico “giocare sporco”, insomma, un fenomeno sempre più comune in quel di Hollywood dove c’è molta concorrenza in campo. Dalle accuse di razzismo (12 anni schiavo) a quelle di anti-semitismo (A Beautiful Mind) e di inaccuratezza storica (Selma). Molte di queste campagne denigratorie sono stata attribuite – a torto o a ragione – a Harvey Weinstein. L’ ex numero uno della Miramax ora a capo della Weinstein Company ha aperto la strada alle moderne campagne Oscar costruendosi la reputazione di spietato ed efficace stratega. I risultati parlano da soli: i suoi film gli hanno assicurato più di 300 candidature all’Oscar. La sua potente macchina organizzativa e la sua lungimiranza hanno portato alla vittoria tra gli altri, Shakespeare in Love, Chicago, Crash, Il Discorso del Re e The Artist. Ai tempi, fu lui l’artefice del trionfo di La vita è bella di Roberto Benigni. È così potente che quando Jennifer Lawrence ha vinto un Golden Globe nel 2013 lo ha ringraziato “per aver ucciso chiunque dovevi uccidere per portarmi fin qui”. Però anche i più grandi falliscono. Ne è la prova la campagna promozionale studiata per lanciare The Imitation Game. Gioca la carta della crociata in difesa dei gay, Re Mida Harvey. Si batte il petto chiedendo il perdono di chi – come Alan Turing – è stato condannato in cambio della sua onorificenza a ufficiale dell’impero britannico. Ma poi il film è stato snobbato in ogni dove. E quei poveri illusi che ancora si crogiolavano nell’idea romantica dell’elezione degli Oscar come a una notte piena di magia, dove a trionfare fosse solo il talento , dovranno arrendersi alla più cinica delle realtà. Vincere un Oscar è tutta una questione di potere. Il potere dell’industria cinematografica, quella con la “I” maiuscola, quella che si autocelebra e vince a suon di soldi e pubblicità. And the Oscar goes to….

[Credit Cover: Reuters]