Da 0 a 300.000 euro in 1 minuto, ci sarebbe da dire volendo usare i termini della pubblicità automotive. É quanto è riuscito ad accreditarsi, battendo ogni record di autostima e di faccia tosta, l’ex vice direttore generale di Honda, nonchè presidente di Camera di Commercio di Chieti, Mr. Silvio di Lorenzo, perito industriale e una Laurea Honoris Causa (le nostre Università sono sempre molto lungimiranti in quanto a meritocrazia), da trent’anni al timone dell’azienda abruzzese. La notizia è di qualche giorno fa: il supermanager, in una serie di comunicazioni epistolari con se stesso (“Grazie di cuore” scriveva in fondo alle comunicazioni auto-inviate dove si auto-promuoveva) ha aumentato il suo stipendio di oltre 300.000 euro annui, contando sui totali poteri di delega conferiti dai Giapponesi, poco avvezzi a leggere e comprendere non solo la nostra lingua, ma evidentemente anche le dinamiche elementari di amministrazione del personale.

Peccato non solo che i Giapponesi se ne siano accorti, ma abbiano anche scoperto una rete di fornitori ben congegnata e intessuta, tutti afferenti ad aziende appositamente costituite con a capo familiari e amici fidati (gli imprenditori Gabriele Scalzi, Pietro Rosica e Antonio Di Francesco, con le aziende Tecseo.it, Deca Spain e Rossocromo). Tutto questo, naturalmente con il più o meno tacito consenso delle solite Associazioni di Categoria che sembra davvero incredibile come in un territorio così ristretto non fossero mai venute a conoscenza di nulla in 30 anni di gestione. Ad aggravare la situazione anzi, un rinnovo di mandato presidenziale presso la Camera di Commercio di Chieti che è costato a Confindustria l’uscita di Honda per decisione diretta dei Giapponesi.

Dal 2008 al 2013 oltre 700 lavoratori hanno lasciato lo stabilimento. L’anno scorso è scattato l’incentivo all’esodo per altri 133. Nello stesso periodo Silvio di Lorenzo aumentava il suo salario di 300.000 euro annui e in contemporanea creava danni sulle forniture stimati dai Giapponesi nell’ordine dei 10 milioni di euro.

Questa è la cronaca.

Rimangono adesso solo un paio di riflessioni. Da una parte la grande amarezza nel constatare ancora una volta come il destino dei super manager spesso vada in direzione opposta a quello dei propri dipendenti ma molto spesso anche con quello della propria azienda. In un territorio come quello abruzzese, letteralmente devastato dal terremoto da un punto di vista sociale e dalla crisi da un punto di vista imprenditoriale, sapere che un manager che da 30 anni lavora gomito a gomito con i suoi operai – e quindi ne conosce le famiglie, le loro storie, le ambizioni ma anche le preoccupazioni – si sta arricchendo sulla loro pelle, eticamente fa rabbrividire. Nè più nè meno, verrebbe da dire come i manager di Ilva che, compiacente la politica degli ultimi 40 anni, ha avvelenato una città e continua ad uccidere centinaia di persone all’anno.

D’altro canto, viene da chiedersi se tutte le misure, le procedure, le pletore di consulenti e di certificazioni, la burocrazia così orgogliosamente esposta a baluardo di un’organizzazione multinazionale ma troppo spesso scimmiottata anche dentro le mura di piccole e medie imprese, sia davvero garanzia di qualità ed efficienza delle azioni e delle decisioni dei manager e delle organizzazioni stesse. O se più probabilmente sarebbe stata più efficace una chiacchiera da bar per fermare la cupidigia di chi ancora sopravvive in un Far West tutto personale fatto di inchini, di sotterfugi, di regole non scritte ma patti molto chiari fra Associazionismo, politica e piccoli uomini in discesa.

Grazie di cuore, verrebbe da dire. Ma ai Giapponesi, questa volta.