Scirea non l’ho mai visto giocare. Avevo solo 10 anni quella mattina del 3 settembre 1989, e ricordo che ero intento a giocare sul balcone di casa mia, a Bari, e sfogliare il Guerin Sportivo, immaginando epiche sfide internazionali tra le squadre italiane e compagini europee dal nome improbabile e affascinante. Se un bambino di 10 anni che segue il calcio ha un grande vantaggio sugli altri, è questo: conosce la geografia meglio di tutti i suoi compagni di scuola. E io sapevo benissimo dove si trovavano Sofia, Bratislava, Goteborg, Malaga e Bucarest. E conoscevo persino Zabrze.
Arrivò mio padre, grande intenditore di pallone, trafelato, scosso, aveva appena sentito una notizia in televisione. Mi disse soltanto “È morto Gaetano Scirea” è andò a trascinare le sua ciabatte altrove, scuotendo la testa. Lo rincorsi, gli chiesi cosa era successo a quello che mi descriveva come il più grande libero che avesse mai vestito la maglia azzurra. “Ha fatto un incidente con la macchina – il suo sguardo si posò sul mio Guerin Sportivo – stava andando a studiare quella squadra là, i polacchi“. “Il Gornik Zabrze“, lo corressi. Sul mio Guerino c’era tutto. Non c’era bisogno di andare fino là, campione, pensai. Nella mia mente di bambino non riuscivo ad accettare l’ingiustizia di quella perdita, chiesi a mio padre di raccontarmi di più.
“È morto nel modo più orribile, bruciato tra le lamiere contorte di una vecchia Fiat 125 stracarica di taniche di benzina, sbandata dopo l’urto fatale con un pesante furgone e scivolata in fiamme sotto la pioggia sul ciglio di un’autostrada. Troppo violento è stato l’ impatto con il camioncino, né portiere – recita l’articolo di Andrea Tarquini di Repubblica del 5 settembre 1989 – né vetri potevano più offrire lo spiraglio di salvezza. Ustioni diffuse di terzo grado hanno avuto ragione dei suoi ultimi attimi di vita: Gaetano Scirea è stato dichiarato clinicamente morto nella sala di pronto soccorso dell’ ospedale di Rawa Mazowiecka insieme ai suoi compagni di viaggio, calciatori di una squadra di operai di cui avrebbe dovuto essere l’ospite illustre”
E lui mi raccontò di quanto era stato importante nel Mondiale del 1982. Lui e Zoff, due persone introverse eppure di una personalità disarmante, presero per mano lo spogliatoio della nazionale. Da loro passavano tutte le decisioni: le loro rispettive mogli erano rimaste a Torino a riferire ai mariti cosa si diceva degli azzurri in Italia. Con i loro silenzi Zoff e Scirea sapevano esprimere esattamente gli umori della squadra. Giocò un Mondiale eccezionale Gaetano. Oggi sarebbe un difensore incredibilmente moderno. Non oso pensare quale sarebbe il suo valore sul mercato, in un contesto in cui un David Luiz, con tutto il rispetto, vale 60 milioni.
“È successo tutto domenica, pochi minuti prima dell’una, su un tratto dell’autostrada che collega Lodz alla grande arteria tra Varsavia e Cracovia, quella che per camionisti e famiglie in viaggio è la via principale. Scirea era arrivato in Polonia sabato, ospite del Gornik, la robusta, infaticabile squadra di minatori slesiani che alle elezioni di giugno hanno sfidato la burocrazia comunista eleggendo in parlamento Adam Michnik, l’intellettuale di Solidarnosc”
Era anche un uomo di larghe vedute, Gaetano Scirea. Non si limitava a giocare, a rincorrere un pallone. Leggeva, studiava, si interessava alla politica, agli sviluppi socio-culturali di quel periodo incredibie. Alla guerra fredda, a Solidarnosc, alla dignità degli operai. Era un giocatore di una correttezza incredibile, mi spiegava mio padre. Terminò la sua carriera senza prendere un’ammonizione. Ma non solo perché aveva un fortissimo senso dell’etica. Perché il suo modo di giocare era un mix filosofico di etica (correttezza) ed estetica (eleganza). Arrivava sempre prima degli altri sul pallone, aveva un timing di intervento che oggi andrebbe insegnato nelle scuole calcio, a tutti i ragazzi che si apprestano a fare i difensori. Andatevi a vedere la serenità con la quale, in una finale mondiale, Scirea governa il pallone prima di passarlo a Tardelli per il gol del 2 a 0. Mio padre continuava a ripetermelo, mentre io decidevo che avrei fatto il libero.
Ma non mi rendevo conto che forse quel giorno non era morto solo Scirea, ma il ruolo stesso del libero. Come se da quel maledetto incidente tutti i numeri 6 del mondo avessero deciso di cambiare ruolo e modo di giocare. Mi smentì, 15 anni dopo, un certo Franco Baresi, in una finale Mondiale. Scese in campo due settimane dopo un’operazione al menisco, giocò una partita incredibile, senza paura di niente. Sbagliò un rigore, ma soltanto perché ebbe il coraggio di tirarlo. I campioni, d’altronde, sono tali per l’esempio che danno. Mi ricordai di mio padre e di Scirea, di quel pomeriggio del 3 settembre del 1989. Di mio padre che mi parlava di eleganza e coraggio, di un giocatore che non ho mai visto giocare ma che resterà per sempre nella mia memoria: a Gaetano Scirea, 25 anni dopo. All’uomo, al campione, all’esempio.
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