Nel 1975 un palestrato ventinovenne italoamericano, di professione buttafuori, si aggirava per le vie di New York con pochi spiccioli in tasca ma con un pensiero stupendo: mettere su pellicola la sceneggiatura che ha scritto di getto, dopo aver assistito a un incredibile match tra Muhammad Alì e lo sfidante Chuck Wepner. Ai produttori, chiamati Irwin Winkler e Robert Chartoff, l’idea piace da morire. Il palestrato che sogna di diventare attore pone però una condizione sulla cessione dei diritti sulla sceneggiatura: il protagonista dovrà essere lui. Alla United Artists, a cui nel frattempo Winkler e Chartoff hanno girato il progetto, intuiscono immediatamente le potenzialità del copione ma non sono affatto convinti di concedere al misconosciuto italoamericano il ruolo principale, dato che il budget potrebbe puntare a gente come Robert Redford o Ryan O’Neal. Winkler e Chartoff fanno presente la conditio sine qua non sul protagonista e la casa di produzione taglia pesantemente i fondi, dando ai due avventurieri John G. Avildsen come regista e appena 1 milione di dollari: il resto lo dovranno mettere loro di tasca propria, Chartoff dovrà persino ipotecare la casa. E se il 20 novembre 1976 la città di New York ha potuto ospitare la premiere di Rocky, che ha e avrà da qui all’eternità il volto suonato di Sylvester Stallone, lo dobbiamo anche a lui e a Irwin Winkler. Perché 40 anni dopo, possiamo dirlo, ne è valsa decisamente la pena.

Rocky, oltre a portarsi a casa l’Oscar come miglior film nel 1977 e ad arrivare in cima alla classifica dei film più visti del 1976 in America: la sua portata tuttavia va ben oltre gli incassi e i riconoscimenti. Innanzitutto, insieme a Star Wars, è probabilmente la saga più popolare a livello mondiale: sei capitoli spalmati in 30 anni, sette in quaranta se si considera anche Creed, lo spin-off uscito nel 2015. E come ogni saga ci sono gli alti e ci sono i bassi: lo stesso Stallone si dichiarerà estremamente pentito di aver girato Rocky V, tanto da voler dare più avanti al proprio alter ego una degna fine con Rocky Balboa. Il percorso di Rocky è però quello dell’America e, se vogliamo, del mondo. Se gli anni ’70 sono quelli in cui la Guerra Fredda è ancora attiva e gli USA sono alle prese col fantasma del Vietnam, il 1985, l’anno di Rocky IV, è quello in cui il conflitto ideologico è in via di raffreddamento: l’immagine dell’eroico Rocky trionfante sulla montagna sovietica (dopata) Ivan Drago, acclamato persino dal pubblico di Mosca, è l’emblema della dominante America reaganiana.

Rocky è la classe operaia che ce l’ha fatta, che si permette il lusso di passare da una minuscola baracca di Philadelphia a un villone da star mantenendo l’umiltà e la faccia di chi è partito da zero. E lo sport che ha fatto da catalizzatore per il mito non poteva che essere la boxe, quello maggiormente adatto ai tempi e alle luci del cinema: la corsa per le strade di Philadelphia, fino alla salita dei gradoni del Museum of Art rimarrà ad aeternum impressa nella memoria.

[Photo Credits: United Artists/James Crabe]