Parliamo tanto di privacy, e ci arrabbiamo – giustamente – quando questa viene violata, ma molto spesso ci dimentichiamo che siamo noi stessi, giorno dopo giorno, a regalare ad archivi permanenti dati e informazioni della nostra vita più privata.

Social network come Facebook e Twitter, all’inizio della loro esistenza, non erano altro che divertenti siti per teenager e geek, ma ora sono diventati di massima importanza per la vita di tutti – o quasi – grazie al carattere comunicativo che li caratterizza.
È soltanto con il passare del tempo, però, che si è capito come i social network (Facebook e Twitter sono i più importanti a livello globale, ma ce ne sono altri – non meno importanti – a livello nazionale, come Mixi in Giappone, Qzone in Cina, e Orkut in Brasile) fossero dannosi per via delle continue e “violente” incursioni nella vita privata; troppo spesso diventata pubblica.

Secondo recenti dati Istat, l’87,7% di giovani, di età compresa tra i 15 e i 24 anni, utilizzano internet quotidianamente, che sia da personal computer o da un dispositivo portatile – come ad esempio uno smartphone – e l’84,3% di questi è sui social network. Le percentuali scendono leggermente per gli utenti dai 25 ai 34 anni: l’80,1% naviga in rete quotidianamente, e il 70,4% ha un profilo personale su almeno un social.

Ma perché ci attraggono così tanto i social network?

Siamo diventati Facebook-dipendenti perché in una rete fatta di community, mondi virtuali, blog e utenti, l’idea di rimanere soli ci faceva paura. Così abbiamo deciso di restare “soli insieme”. Connessi con chi vogliamo, abbiamo imparato a sviare le impegnative problematiche delle relazioni umane grazie alla tecnologia.
La rete ha guadagnato un posto importante in tutti gli ambiti della nostra vita: nelle amicizie, nelle relazioni di coppia, nel commercio e via dicendo, creando un nuovo modo di essere, quello del “condivido dunque sono”.

Si condivide quotidianamente, si condivide troppo facilmente. Si condividono soprattutto dati personali che diventano immortali, e sempre reperibili in rete.
Uno studente universitario su tre, secondo la survey, condivide senza problemi le informazioni personali della sua vita privata in rete, preoccupandosi poco o niente della propria privacy. E così finisce che uno su quattro – ben il 25% – sperimenta il furto d’identità prima dei 30 anni.

Ci sono, però, anche utenti che cercano di non condividere i propri dati personali in rete, ma social come Facebook cercano di dribblare questo problema incoraggiando, ad esempio, altri utenti a fornire i dati dei propri contatti, o a “taggare” altri utenti nelle foto, nei video o anche in determinati luoghi. Così facendo Facebook ignora alcuni principi della Legge Europea sulla Protezione dei dati personali, perché solo ed esclusivamente il singolo utente potrebbe dare il consenso al trattamento dei propri dati.
Dulcis in fundo, c’è dell’altro. Iscrivendosi a Facebook si leggerà “gli utenti possono in qualsiasi momento cancellare i contenuti del loro account”. Ma la verità è che, anche cancellando interamente il proprio account personale, la rete continuerà a mantenere alcuni dei dati pubblicati. Leggendo attentamente le condizioni d’uso all’atto della creazione del profilo social si troverà un postilla che dice: “gli utenti accettano che Facebook mantenga delle copie archiviate dei contenuti dei profili” e poi “le informazioni rimosse possono rimanere come copie di back up per un tempo ragionevole”. Il “tempo ragionevole” che intende Mark Zuckeberg equivale al più comune per sempre.

È facile creare un proprio account su un social media, è facile condividere o retwittare, ma qualcuno pensa mai alle conseguenze?
La vita virtuale si fa sempre più reale, consistente benché immateriale, ubiqua ed eterna. L’equilibrio tra innovazione e privacy è stato distrutto: molto spesso la prima si figura come una minaccia alla seconda.
Se condividi non puoi più cancellare veramente. La memoria della rete non perdona.

Secondo Luca Bolognini, presidente dell’Istituto Italiano Privacy: “Immaginare una patente per poter navigare, così come serve il patentino per lo scooter, è troppo: ma avrebbe senso che Internet diventasse materia obbligatoria di studio alle scuole medie inferiori e superiori, e che in questa ‘ora settimanale’ fossero affrontati i temi della privacy e della gestione dell’identità digitale. Un utilizzo ignorante della Rete può mettere in pericolo sé e gli altri, dunque maggiore educazione e più consapevolezza delle opportunità e dei rischi del web eviterebbero grandi problemi” – continua poi così “Un errore di gioventù, commesso on line, può riflettersi pesantemente sul futuro anche professionale di una persona adulta. I rischi vengono certamente dalla possibilità che malintenzionati approfittino della nostra ingenuità digitale, che ci porta a condividere troppe informazioni sulla nostra vita privata, ma anche da noi stessi utenti, che siamo dotati di poteri di generazione, cattura e diffusione di contenuti pari a quelli di un giornalista”.

È evidente il fatto che viviamo in una società in cui ogni atto è registrato e ricordato, in modo tale da legarci per sempre alle nostre azioni passate. Per non essere né preda né predatori di violazioni e timori immobilizzanti, per non essere ostaggi a vita del network, prudenza e consapevolezza quando si sta sulla rete.

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