Barbara Serra è uno dei volti più amati del giornalismo italiano emigrato all’estero, dove vanta una carriera di oltre 10 anni di successi sui canali all news, dalla BBC a Sky News, fino alla attuale conduzione dagli studi di Al Jazeera English. Non mancano suoi interventi in Italia, dove ultimamente è stata ospite su Rai2 del programma Virus di Nicola Porro dove ha parlato della problematica affrontata dagli italiani nell’emigrare nel mondo anglosassone e trovare lavoro, argomento del suo libro Gli italiani non sono pigri. Di questo e tanto altro – dall’Isis all’evoluzione del giornalismo – abbiamo parlato con Barbara in un’intervista rilasciata in esclusiva a Il Giornale Digitale. Tra una riflessione e un’altra, alla domanda su eventuali momenti di sconforto affrontati nella carriera giornalistica, Barbara ha inaspettatamente risposto: “Mi capitano ogni giorno“. Professionalità e passione per il suo lavoro: Barbara Serra non lascia dubbi sul suo approccio al giornalismo. Conosciamola meglio.
I passi della tua carriera li conosciamo. C’è qualche aneddoto relativo al tuo esordio professionale in UK che vorresti raccontare?
Barbara: Più che un aneddoto, cìò che ha cambiato molto la mia esperienza d’esordio è stata la dimestichezza nel confronto con il contesto anglosassone che avevo appreso dalla scuola. Io ho fatto le scuole in Danimarca, dove andavo alla scuola internazionale locale, che era inglese. Ero, quindi, già abituata a lavorare in un contesto internazionale, nello stile anglosassone, rappresentando una minoranza. Parlare la lingua mi ha aiutato, ma di più l’impostazione mentale che avevo acquisito.
C’è un ricordo particolarmente duro relativo alla tua esperienza in stage alla CNN? Nelle scorse settimane hai annunciato sulla tua pagina Facebook che stanno cercando stagisti e facevi un tuo in bocca al lupo personale
Barbara: Quello che ho notato nella mia esperienza di stage – a prescindere dal fatto che fosse la CNN perché sarebbe accaduto anche altrove – è che a loro non importava nulla che io riuscissi o meno. Loro erano lì per vedere se io avevo la stoffa per sopravvivere. Ero io a dover trovare le opportunità per me, perché loro sapevano che dopo di me sarebbero arrivati altri. Hanno il merito di non tenerti a fare fotocopie. Loro ti coinvolgono, a differenza di altri. Ma se fossi riuscita o meno dipendeva solo da me.
C’è qualcuno o qualcosa che ti ha ispirato nella scelta del giornalismo come tua professione?
Barbara: Mi ricordo di aver visto Christiane Amanpour nella prima guerra del Golfo. Lei era l’unica al tempo. Eravamo ai tempi della nascita dei canali all news e le sue dirette mi hanno colpito molto. Lei era forte. Se devo individuare qualcuno scelgo lei. Avevo solo 16 anni ai tempi.
Se non avessi fatto la giornalista, quale sarebbe stato il tuo piano B?
Barbara: Potrei aver bisogno ancora di un piano B (ride). Mi sarebbe piaciuto fare la maestra. Un domani non mi dispiacerebbe. Quando vado nelle scuole a parlare con gli studenti, magari nelle scuole di giornalismo, mi piace molto.

Nel tuo libro Gli italiani non sono pigri racconti la tua esperienza – e non solo tua – nell’emigrare all’estero e combattere il pregiudizio professionale. Qual è l’errore che più spesso commettiamo noi italiani nel proporci per un lavoro fuori dall’Italia?
Barbara: Non so se commettiamo realmente un errore. Partiamo svantaggiati in quanto stranieri. C’è una selezione naturale molto dura qui in UK. Quando arrivi, capisci come funziona e ti adatti. Gli italiani inseriti in un contesto realmente meritocratico di solito riescono bene. Appena vedono che il lavoro duro verrà ricompensato – non economicamente magari, ma negli avanzamenti di carriera – allora lavorano bene.
Rispetto ai tempi – ieri, oggi e domani – cosa è cambiato nel giornalismo e cosa attendere per il prossimo decennio?
Barbara: Le regole sono le stesse. Cambia la piattaforma. Tra 5-10 anni forse spariranno i cartacei e il Tg delle 8.00, sul canale generalista. Guardando in internet, la gente va sempre dai nomi fidati. Per me il problema è adattarsi a come fornire l’informazione in maniera diversa. Nell’essere giusti in chi si intervista o l’essere onesti e trasparenti non credo che il giornalismo stia cambiando più di tanto.
L’Isis nell’ultimo periodo è argomento preponderante nella cronaca internazionale. Abbiamo letto e visto le decapitazioni ad opera dell’Isis, spesso divulgate da diverse testate online senza filtro. Qual è il confine tra il dovere di cronaca e lo sciacallaggio?
Barbara: In Tv il filtro c’è. Quando arrivano i video su internet, tu vedi tutto. La Tv non si sognerebbe mai, invece, di metterli senza filtro. La decisione risiede nella scelta di usare queste immagini o non farlo per nulla. Si parla tanto dei 5-6 ostaggi occidentali. Ma l’Isis è da anni che va avanti a sgozzare persone. Da noi fa notizia adesso perché si parla di occidentali […] Non so se stiamo facendo il loro gioco. Loro hanno due scopi: il reclutamento – e la diffusione delle notizie non li aiuta tanto, perché anche in Medio Oriente queste immagini suscitano shock e li pone in pessima luce – e generare terrore nel mondo occidentale. Alla fine la notizia è quella, non so quanto si possa nascondere e non so quanto servirebbe farlo. Gli americani non hanno iniziato a bombardare perché sono stati decapitati degli ostaggi, bensì perché hanno percepito che questi (gli estremisti islamici dell’Isis) stanno diventando un potere. Occorre, quindi, come ambo le parti utilizzino l’informazione. La decapitazione, di chiunque sia, non è la ragione per cui l’Occidente sta combattendo.
C’è un modo per raccontare la guerra e le sue atrocità senza diventarne strumento di amplificazione?
Barbara: Dipende cosa intendiamo per “amplificazione”. Capisco che su Uno Mattina non si mandano immagini di un certo tipo. Bisogna mostrare quello che è veramente, e questo non è “amplificazione”. A volte amplifichiamo la voce dei nostri governi, che un giorno forse dovranno giustificare la decisione di andare in guerra. Se ci pensi, quello che viene detto al pubblico serve ai nostri governi per avere dalla propria parte l’opinione pubblica nel momento in cui iniziassero a lottare contro l’Isis.

Quando hai accettato l’incarico ad Al Jazeera, qual è stato il pregiudizio più grande che hai dovuto superare? Da parte della tua famiglia, dei colleghi o di te stessa?
Barbara: Non tanto dai colleghi, perché chi lavora nel nostro settore conosce le complessità di Al Jazeera. A volte, invece, io chiedevo delle interviste e la gente invece era titubante, perché lo era nei confronti di Al Jazeera. Il pregiudizio talvolta c’è, ma lo ignori e basta.
Invece, il più grande pregiudizio che ritieni ci sia sul mondo arabo e che data la tua esperienza ti senti di smentire qual è?
Barbara: Credo ci sia da ricordare che la maggior parte di vittime di gruppi – che sia Isis o Al Qaeda – provengono dal mondo arabo e musulmano. Al Qaeda ha ucciso sì migliaia di occidentali in attacchi come quello dell’11 settembre, ma se pensi alle morti di arabi che ha causato in Siria, Libia, ecc, sono molte di più. Il nostro più grande pregiudizio è vedere tutto riducendolo a due correnti: moderato ed estremista. I moderati sono quelli più vicini; gli estremisti i più diversi. Non è così bianco e nero come si pensa.
Qual è il servizio che ti ha emozionato di più e quale il più difficile?
Barbara: Sicuramente mi ha emozionato particolarmente il servizio sulla morte di Papa Giovanni Paolo II, anche perché era uno dei primi. I servizi più difficili, invece, sono quelli in cui parlo di Isis, Medio Oriente, primavera araba. Su Al Jazeera Uk il pubblico è internazionale, quindi parlare di quelle storie in maniera onesta, che possano capire tutti, è impegnativo.
Ti è mai capitato di pensare “non ce la posso fare“?
Barbara: Ogni giorno!
Cosa rende un giornalista di talento? Ci sono delle caratteristiche imprescindibili?
Barbara: Curiosità, determinazione, un briciolo di sfacciataggine, duro lavoro.
Nella vita di tutti i giorni chi sei?
Barbara: Rimango una giornalista. Certe qualità del giornalismo le ritrovo nella vita di tutti i giorni. Ma guardo anche per ore la TV, con una tazza di the, una fetta di torta, in compagnia di un’amica.
[Credits Cover: Rai.Tv]