Nel 1974 un equilibrista di nome Philippe Petit si rese protagonista di un’impresa funambolica che passò alla storia come la Traversata delle Twin Towers (allora più alte e svettanti che mai). Quel momento è stato fotografato da un’immagine che Alejandro González Iñárritu, prima di mettersi all’opera, ha mostrato ai membri del cast della sua ultima fatica (aspettando The Revenant), con un avvertimento al seguito: “This is the film we are doing, guys: if we fall, we fail“. Quella stessa opera, Birdman, in molti ve la spacceranno per surrealismo puro: non ci siamo, sono due cose che non condividono nemmeno lo stesso campo da gioco. Perchè Birdman spacca la realtà in mille pezzi, per poi reincollarli tra di loro e applicarvi uno strato di magia: siamo al cospetto di un esemplare di realismo magico, un genere sviluppatosi – nell’arte in generale – in America Latina e che sul grande schermo non dispiace a tipi come Woody Allen o Michel Gondry.

Capofila a Venezia ’71 (dove venne definito eccessivo), il film di Alejandro El Negro prende le mosse da un camerino, quello occupato dall’attore in parabola discendente Riggan Thomson (Michael Keaton). Come il suo interprete nella realtà, Riggan aveva raggiunto il successo oltre vent’anni prima nei panni di Birdman, supereroe protagonista di una serie di film, finendo poi, col tempo, ai margini di Hollywood. L’occasione per riemergere e dimostrare a tutti (e nel tutti c’è anche la figlia Sam/Emma Stone) di farcela ancora, è la preparazione dell’adattamento teatrale di un’opera di Raymond Carver, per cui Riggan ingaggia anche il problematico e stanislavskiano attore Mike Shiner (Edward Norton). Tra i tanti ostacoli alla messa in scena ce n’è uno con cui Thomson deve fare i conti da diverso tempo: Birdman. La schizofrenia di cui soffre lo ossessiona attraverso dialoghi con la voce del proprio alter-ego in costume da volatile.

Così come in politica c’è l’ormai proverbiale fazione del benaltrismo, in campo cinematografico si va sempre più affermando il partito del ‘Troppa carne al fuoco‘. Lasciate perdere: Birdman, sotto la sua corazza da black-comedy, offre una sfilza di tematiche una più interessante dell’altra, trattandole in maniera agile e non superficiale, convinta e non ridondante. Si spazia dalle manie dell’umanità 3.0 (i social network, la popolarità) al rapporto tra finzione e realtà; dalla dialettica vita/arte (vaghi richiami al Cigno Nero) agli echi shakespeariani (Macbeth).

Iñárritu tiene incollato l’obiettivo ai propri personaggi, non lasciandoli nemmeno per un attimo. Lunghissimi piani sequenza, uniti a una colonna sonora tambureggiante e una fotografia scura (firmata da Emmanuel Lubezki, premio Oscar per Gravity), creano un’atmosfera avvolgente, a tratti claustrofobica, a tratti dinamica. Girato in meno di un mese, condito da un montaggio essenziale e strepitoso, Birdman riprende, senza fare il verso, altri elementi tecnici tipici del cinema di Alejandro, dalla coralità degli interpreti (meno accentuata però rispetto a Babel, Amores Perros o 21 Grammi) al solito straordinario utilizzo della camera a mano.

L’autore messicano mette a nudo le isole umane che racconta: lo fa anche letteralmente, in una meravigliosa sequenza, magistralmente girata a Times Square (dopo mezzanotte, per evitare il caos), forse la più emblematica – dal punto di vista tecnico e narrativo – dell’intero lavoro.

I crismi del capolavoro si palesano già nel casting. Niente affatto casuale, certamente geniale, è la scelta di Keaton: l’ex-Batman, perfetto e senza forzature – in un ruolo tutt’altro che semplice – deve a Iñárritu la propria rinascita professionale. A prescindere dall’Oscar, la sua è una storia meravigliosa. In una baraonda di adorabilmente odiosi personaggi, coadiuvati da una sceneggiatura (con più di mezzo Oscar in tasca) che ne esalta la coesione e la tensione, un po’ tutti hanno l’occasione di spiccare: dallo splendido redivivo Ed Norton a un Zach Galifianakis più glamour che mai; dalla stralunata Naomi Watts a Emma Stone.

Lasciate perdere, però, le etichette: Birdman è un film diverso. Perchè guardandolo vi sentirete a casa e, contemporaneamente, in ogni altra parte del mondo, inalando tutta la magia del cinema.

[Ph. Credits: Emmanuel Lubezki]