C’è stato un tempo in cui guardare un film di Woody Allen rappresentava un’esperienza per certi versi distruttiva: fatte a pezzi le convenzioni, fatta a pezzi la società, fatto a pezzi il nostro stomaco, nei casi migliori, devastato dalle risate. Da qualche lustro a questa parte, il buon Allan Stewart Königsberg, 80 anni raggiunti alla fine dell’anno scorso, si è invece buttato su un sottogenere che trent’anni fa in pochi immaginavano avrebbe abbracciato: la commedia leggera. Con l’ultimo arrivato, Café Society (film d’apertura a Cannes), Woody conferma di voler passare la sua ultima stagione da artista proiettando le sue esistenze parallele: c’era molto di Allen nel Joaquin Phoenix di Irrational Man, molto altro nel Colin Firth di Magic in the moonlight, figuriamoci nell’Owen Wilson di Midnight in Paris o nel Larry David di Basta che funzioni.
Qui Woody Allen si diverte a far uso del volto come sempre spaesato e svampito di Jesse Eisenberg, il cui personaggio (Bobby Dorfman) finisce per innamorarsi di Vonnie (Kristen Stewart), dopo la fuga da New York e l’arrivo a Hollywood. Siamo negli anni ’30, e quando si tratta esplorare epoche passate Allen ha più volte dimostrato di aver trovato la sua tazza di tè: basti pensare al viaggio di Gil Pender in Midnight in Paris. La Hollywood degli anni ’30 mostrata dal regista newyorkese è un trionfo di colori (magistralmente sottolineati dal sempiterno Vittorio Storaro) nonché ambiente in cui sguazza Phil Stern (Steve Carell), zio di Bobby che cercherà di farlo inserire nella società che conta della città dei sogni. Imprevedibili complicazioni d’amore e questioni irrisolte in famiglia (c’è spazio anche per il fratello gangster di Dorfman) movimenteranno la vicenda.
A prima vista, Café Society è una variante dell’Ave, Cesare! dei fratelli Coen traslato dai 50’s ai 30’s e privato degli inserti musicali. In realtà, ben lontano dai propositi satirici dell’opera coeniana, il film di Allen trasuda amore non soltanto verso l’epoca in cui egli stesso è nato (classe 1935) ma anche, come accennato in precedenza, verso l’anima in pena rappresentata dal protagonista. Il Bobby Dorfman dipinto da Eisenberg, che finalmente dopo il declino successivo a The social network sta mostrando il proprio valore, è un concentrato di tenerezza e caparbietà, disadattamento e ambizione. L’accoppiata con la Stewart – anche lei attrice in ascesa tra le giovani – è apprezzabile, ma la sterzata al comparto attoriale la dà (manco a dirlo) Steve Carell: nato come comico, è diventato nel tempo indistintamente eccezionale, si tratti di dramma o commedia.
Café Society, nelle sale italiane dal 29 settembre, è l’ideale dunque per apprezzare un altro prodotto della svolta gentile del vecchio (ma sempre nuovo) Woody Allen.
[Photo Credits: Vittorio Storaro/Amazon Studios]