Per uno nato nel 1979 il Muro di Berlino non è solo un ricordo. È un compagno di classe, una domanda da fare alla maestra delle elementari, un quesito buffo per il papà che ha fatto il classico: “Ma perché da Berlino Est non si può uscire?“. Per uno nato nel 1979, non basta un atlante per comprendere quella divisione. Una spartizione assurda, figlia di una guerra con pochi vincitori e molti vinti, una bomba pronta ad esplodere nel cuore dell’Europa. Tra la guerra, la politica e la cultura c’è lo sport. Il calcio. Per i bambini della mia generazione il calcio è stata la salvezza. Il miglior modo per imparare la geografia, e non solo. Era un biglietto di sola andata verso posti sconosciuti, misteriosi, pieni di fascino e contraddizioni. Il mercoledì di coppa le squadre italiane sfidavano le nemiche della democrazia: si giocava a Kiev, in Unione Sovietica (non in Ucraina, e chi ne conosceva l’esistenza?), a Dresda, a Bucarest, a Belgrado e Leningrado, dove oggi gioca lo Zenit San Pietroburgo, la squadra delle officine ottiche.

Una menzione va fatta anche alla Lokomotiv Lipsia, che giocava al Zentralstadion, un monumento in pietra da oltre 100.000 spettatori, e al Magdeburgo, seconda squadra dell’est a vincere una Coppa delle Coppe e quarta in assoluto a vincere una coppa europea. Lo Zenit soffriva del fatto che puntualmente i migliori finivano a Mosca, a rimpinguare le squadre ministeriali (Dinamo, Spartak e anche Torpedo; l’Armata Rossa – CSKA era fortissima nelle altre discipline, ma non nel calcio). Così, destinataria dei migliori giocatori ucraini era la Dinamo Kiev (con clamorosi trasferimenti “forzati”), dei bielorussi la Dinamo Minsk e dei georgiani la Dinamo Tblisi (gran bella squadra). Anche in Romania e Bulgaria polizia ed esercito si accaparravano i migliori giocatori, mettendo di fronte rispettivamente Dinamo e Steaua e Levski Spartak e CSKA. Le rivalità erano feroci e queste squadre, legate all’establishment, sono sopravvissute a tutte le rivoluzioni. Il terzo incomodo, che in Romania era l’Universitatea di Craiova – grande esempio di calcio “in periferia” – non ha resistito al crollo del muro.

Il muro di Berlino rendeva gli scontri europei tremendamente appassionanti: democrazia contro dittatura, libertà contro comunismo, stadi moderni e funzionali (all’epoca) contro impianti parastatali megalomani, stelle mercenarie contro fedeli servitori del partito. Storie che sconfinano nella leggenda, come quella di Helmuth Ducadam, Eroul de la Sevilla, portiere della Steaua Bucarest campione d’Europa. Secondo la versione ufficiale Ducadam sarebbe stato colto da una trombosi alle mani, che rese precario il prosieguo della sua attività calcistica. Secondo altre fonti invece vi sarebbe stato un aspro contrasto con il figlio del dittatore Nicolae Ceauşescu, Valentin, che per vendetta avrebbe ordinato ad alcuni agenti della Securitate (la polizia segreta del regime) di spezzare le mani di Ducadam. Il portiere non avrebbe infatti consegnato una Mercedes regalatagli dal Real Madrid per aver battuto i rivali catalani e pretesa invece dal figlio del leader ed allora presidente della Steaua. Ne sarebbe seguita una spedizione punitiva dei miliziani di Ceausescu, mandati a colpire il portiere con scientifiche bastonate. Questa e altre storie venivano tramandate a noi bambini. Nel frattempo quelle squadre apparivano fortissime e, seppur in condizioni difficili, mietevano successi o posavano le basi per grandi generazione di campioni, come quella della Stella Rossa di Belgrado.

Sulla Stella Rossa ci sarebbe da scrivere un libro a parte: i ragazzi della Stella rappresentano i serbi della capitale. I loro rivali sono quelli del Partizan, la squadra che rappresenta la Jugoslavia. Crescono sotto l’influenza filosovietica, sebbene Tito si sia a suo modo distaccato da Mosca e con una guerra nazionale che incombe sulla loro testa. Eppure costruiscono un gruppo fantastico per creatività, bravura e unità di intenti. La Stella spaventa il grande Milan di Sacchi, salvato solo dalla nebbia. Poi due anni dopo viene a prendersi la Coppa dei Campioni a casa mia, a Bari, con una squadra indimenticabile: Savicevic, Mihajlovic, Pancev, Jugovic e Robert Prosinečki sono solo alcuni dei campioni di quella leggenda di squadra.

È il 1991, il Muro è già caduto da due anni, e l’Europa sta prendendo una nuova forma, così diversa da quella che avevo studiato sul libro di geografia e sul Guerin Sportivo. Il risultato più disastroso della caduta del muro è la fine del cosiddetto calcio danubiano: Ungheria, Cecoslovacchia e Serbia erano il serbatoio dei grandi centrocampisti e mezzepunte d’Europa. Giocatori magari non velocissimi, ma in grado di unire tecnica sopraffina a grande forza fisica. Queste scuole, in questo rigoroso ordine, hanno progressivamente perso, o stanno perdendo, la loro capacità di generare calciatori di livello, con quelle caratteristiche uniche. A parte il fatto che, ormai, a 14 anni, se hai talento finisci nella formazione Primavera di una squadra di serie B italiana. Resta poco di quelle squadre: il Carl Zeiss Jena e il Karl Marx Stadt, che tanto mi avevano stupito da bambino, non esistono più. A Berlino vengono meno, a grandi livelli, le squadre dei quartieri operai: la Dinamo e la mitica Union, che gioca al An der Alten Försterei ovvero nella “La vecchia casa dei guardaboschi“. Varcare la soglia di quel posto significava entrare in un piccolo club di fedeltà, appartenenza e storie debitamente cazzute, anche se mai benedette dalla vittoria, come afferma in un bel pezzo Vincenzo La Monica (dentro i secondi).

La Dynamo Berlino era odiatissima anche in città, in quanto apparteneva di fatto alla Stasi. Sugli spalti le prime file erano sempre occupate da persone in divisa. La Union, che a Berlino chiamavano anche Motor, era una squadra di secondo piano, costretta a cedere fin da adolescenti i migliori giocatori agli odiati rivali. Resta l’Hertha Berlino, che proverà anche ad affermarsi a grandi livelli, senza di fatto riuscirci mai. Un mistero, per una città così grande, con tante possibilità di investimento, ma evidentemente poca cultura calcistica. Dal 1989 Berlino, nonostante la caduta del muro, non è riuscita ad esprimere una realtà calcistica degna di una delle capitali più importanti del mondo. Non è, in assoluto, un controsenso se pensiamo che anche ad ovest le grandi capitali, Madrid a parte, non hanno mai rappresentato il cuore calcistico del paese. Parliamo di Parigi, emersa solo negli ultimi anni grazie agli sceicchi ma di fatto sempre inferiore a OM e Monaco, di Londra (Arsenal e Chelsea non sono Liverpool e Manchester United) e della stessa Roma. Il cuore del calcio italiano e la storia sono altrove, a Milano e Torino per la precisione.

Certo fa effetto vedere Berlino così lontana, calcisticamente parlando, da Monaco di Baviera e Dortmund, e mentre in Italia lo slogan destinato a salvare il mondo del pallone recita: “stadio di proprietà dei club”, a Berlino quelli dell’Union si sono inventati lo stadio di proprietà dei tifosi. Un’argomento romantico quello degli stadi che non ci sono più, chiusi o demoliti per problemi urbanistici o di costi di gestione. Il Zentralstadion di Lipsia “contiene” lo stadio costruito per i Mondiali del 2006, per anni rimasto praticamente inutilizzato per mancanza di squadra. Un altro stadio iconico era quello di Varsavia, suggestivo perché costruito con le macerie dei bombardamenti che avevano raso al suolo la città. Demolito a sua volta. L’Union ha messo in vendita le quote di possesso dello stadio secondo un principio democratico che impedisce speculazioni ed accumuli nelle mani dei singoli. Tra le nuove funzionalità dell’impianto ci sono una caffetteria, dove il giovedì è possibile incontrare i giocatori, una nuova tribuna e spazi dedicati ai tifosi per il fan club, i bar e il merchandising. L’offerta delle azioni ai tifosi è stata pubblicizzata con cartelloni per tutta la città che ritraevano i diavoli del mondo del calcio (tra cui Blatter e Berlusconi), e con uno slogan d’effetto: “L’FC Union vende la sua anima. Ai tifosi”.

Ed è proprio ai tifosi che è rimasta l’anima del calcio dell’est, quella che ha forgiato intere generazioni di calciofili come me e che, al di là dei discorsi politici e delle assurdità del regime, di qualunque regime, ci manca da morire. Conoscere queste storie significa sperare ancora in un calcio migliore. Lontano dalle assurde maglie fluo del Barcellona, del Psg, dell’Inter e del Galatasaray, dai capelli ingellati di Ronaldo, dai look di Quaresma. Il calcio dell’est è una maglia di lana e un pantaloncino a fior di culo. È un giocatore a maniche corte su un campo ghiacciato. È un italiano che si fa fotografare col colbacco prima della partita, è il contrario dell’antagonismo della cultura ultras dei nostri stadi, delle rabbie nevrotiche ed esclusive. I muri possono cadere, e noi possiamo imparare qualcosa da questa storia.

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