Mi piacerebbe sapere da quando, esattamente, noi italiani siamo diventati così astiosi verso il catenaccio. Probabilmente da quando non sappiamo più difendere. Ho provato ad immaginare una partita di una nostra squadra al Vincente Calderòn, ieri. Quanti sarebbero stati in grado di applicare in maniera così tenace una strategia difensiva come quella del Chelsea? A Gianni Brera una partita così sarebbe piaciuta, ma sembra che siamo noi i primi ad aver dimenticato la nostra storia. Se Mourinho è diventato questo tipo allenatore è perché ha studiato anche Nereo Rocco, Enzo Bearzot e Giovanni Trapattoni.
Chiaro, tutti avremmo preferito uno spettacolo diverso. Gol e giocate sensazionali, magari qualche errore difensivo. Ma nell’analizzare la partita ci siamo dimenticati di sottolineare i demeriti dell’Atletico Madrid. Che si sarebbe scelto volentieri un altro avversario, come il Milan di questi tempi, o il Barcellona del tiqui taka, e invece si è trovato di fronte un muro, molto simile a quello che aveva eretto Di Matteo due anni fa al Camp Nou, senza scandalizzare i benpensanti, tra l’altro. Di Matteo arrivò in finale e quella finale la vinse, non meritando. Eppure accadde, e gli almanacchi alla voce Champions League 2012 dicono Chelsea. Per lo spettacolo comunque si fa sempre in tempo: per chi ama le valanghe di gol ci sono l’Eerste Divisie e la Liga Boliviana.
I demeriti dell’Atletico dicevo: quante volte Diego è riuscito a saltare l’uomo? E Costa in quante occasioni ha trovato il compagno smarcato per l’uno – due? A calcio si gioca undici contro undici e se manca lo spettacolo è perché una delle due squadre si difende e l’altra non riesce a trovare la chiave per scardinare il fortino. Non mi risultano grosse parate di Schwarzer, né pali o traverse. E nemmeno errori arbitrali, rigori che mancano all’Atletico o presunte espulsioni chieste da chi la regola dell’ammonizione sul fallo di mano (di Lampard) non l’ha capita proprio. Ma Simeone è bravo ed è ancora pienamente in corsa. A lui va il mio in bocca a lupo, perché il suo Atletico merita davvero questa finale, ma non è detto che la raggiungerà.
Mourinho è un grande allenatore (e non lo scopro io) perché sa quando deve andare in battaglia armato di spada e quando deve andarci con lo scudo. Non c’è bisogno di avere simpatie interiste per ammettere questo. Mourinho si carica nelle difficoltà. Non fa una piega se Cech e Terry si fanno male, non si dannerà l’anima se al ritorno oltre ai suddetti mancherà Frank (a proposito, ma perché in Italia lo chiamano Frankie) Lampard. Ovvero la spina dorsale e l’anima della squadra. Mourinho ha avuto un solo problema nella sua carriera: allenare il Real Madrid.
Al Real, per blasone e tradizione, certe partite non sono contemplate. Non rientrano in quella che viene chiamata, dagli esperti, la filosofia del club. Andatevi a rivedere la semifinale di andata dell’anno passato. Il Real che prende 4 gol a Dortmund. Una squadra senza umiltà che sceglie di non difendersi. Una doppia sfida spettacolare, entusiasmante, così come quella dell’anno prima contro il Bayern. Sapete chi è andato in finale? Non la squadra di Mourinho. Che quando decide di difendersi, con i blancos, prende una barca di gol come al Camp Nou, perché se non difendi in 11, Torres compreso, non ce la fai a portare a casa il risultato. Chiedere a Pandev e ad Eto’o per maggiori informazioni.
Magari ci rifaremo stasera, con lo spettacolo. Guardiola contro Ancelotti, due diverse (e meravigliosamente vincenti) interpretazioni del calcio. Entrambe figlie, almeno in parte, della filosofia di un certo Arrigo Sacchi. E sì, perché il calcio italiano non ha insegnato solo il catenaccio. Ha mostrato al mondo come si può vincere imponendo il proprio gioco e cercando lo spettacolo e i gol. Ma non per questo dobbiamo rinnegare ciò che oggi non sappiamo più fare. Restare concentrati per 90 minuti, difenderci con attenzione, annullare la forza degli avversari. Magari al Mondiale questa lezione ci servirà.
Credits Cover: Shutterstock Images