Il processo di contraffazione, che ha conosciuto uno sviluppo continuo e sempre più crescente a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, rappresenta una profonda piaga per l’industria sartoriale di lusso. A cavallo tra la legalità e l’illegalità la falsificazione dei prodotti appartenenti ai brand più esclusivi sopravvive in maniera parassitaria, ai danni delle aziende più prestigiose conosciute in tutto il mondo per la qualità, lo stile e la sicurezza delle proprie creazioni. I designer hanno reagito negli anni in maniera differente, a seconda dei vari livelli di autenticità che andavano a colpire le proprie creazioni. Dal prodotto originale, alla copia autorizzata, dalla diffusion line al falso vero e proprio, la contraffazione comprende sia il processo di falsificazione che quello di imitazione.

Christian Dior per esempio, si impose nell’immediato dopoguerra con il suo New Look, amato e desiderato da milioni di donne. Trattandosi di un brand poco accessibile ed esposto dunque a un possibile processo di contraffazione, lo stilista decise di prevenire il fenomeno, autorizzando alcuni grandi magazzini a vendere delle imitazioni dei suoi modelli. Si tratta di una vera e propria forma di difesa dai falsi, adottata anche da altri stilisti. Altri invece hanno deciso di creare delle linee più economiche rispetto al marchio principale proprio per arginare il più possibile il fenomeno. È il caso di D&G ed Emporio Armani. Emilio Pucci fu invece il primo a creare il copyright dell’etichetta firmandola, anticipato da Madelaine Vionnet che era solita autenticare l’etichetta con l’impronta del proprio pollice. Chanel invece ha sempre considerato le copie del proprio brand come una forma di pubblicità gratuita per le sue creazioni. Non a caso, la sua petite robe noire è diventato uno storico capo d’abbigliamento, sempre attuale, ripreso da tutti i brand e presente in qualsiasi negozio di abbigliamento, dagli scaffali di Zara alle vetrine dell’alta moda. Per quanto riguarda invece il falso assoluto, c’è da considerare il notevole contributo della Cina, che continua a produrre e diffondere copie contraffatte di nomi come Louis Vuitton, Gucci e Chanel.

Quello della contraffazione è dunque un mondo parallelo, sostenuto e finanziato da una buona fetta della popolazione, che alimenta questo processo illegale, inconsapevole dei danni che produce a tutto il sistema sartoriale. Sì perché i danni non riguardano soltanto il prestigio delle aziende, ma costano anche decine di migliaia di posti di lavoro, con delle importanti ripercussioni sull’intera economia: un valore di 7 miliardi di euro, 130 mila posti di lavoro non creati e un deficit di entrate fiscali per circa 5 milioni di euro. Perseverare quindi nell’acquisto di capi falsi alimenta non solo il fenomeno di dumping sociale, ma danneggia profondamente il settore moda, da sempre uno dei fiori all’occhiello del Made in Italy. Ma cosa spinge le persone ad acquistare abiti, borse, scarpe e gioielli contraffatti pur avendo la consapevolezza della loro scarsissima qualità?

I capi originali appartengono a un mondo inaccessibile per la maggior parte delle persone, soddisfacendo bisogni che vanno oltre le reali necessità umane, destinate dunque a una fetta elitaria della popolazione. Ed è proprio questa inaccessibilità a definire il brand “di lusso”, a conferirgli il prestigio e il fascino, caratteristiche oggettive che lo definiscono e senza le quali andrebbe incontro a un grave deposizionamento. Questi prodotti riproducono in maniera più o meno fedele e precisa il logo delle maison più amate, permettendo quindi a tutti di possedere l’oggetto dei sogni a un prezzo molto più basso. La convenienza è ovviamente legata all’utilizzo di materiali scadenti e all’assenza di innovazione, ma il fatto che l’acquisto richiami agli occhi degli altri la dimensione di eleganza e ricchezza legata a quel brand è soddisfacente. La mancanza della qualità, caratteristica principale assicurata dai brand di lusso, non sembra essere un problema per chi privilegia l’apparenza ai danni dell’essere e del contenuto.