Lisbona, 24 maggio 2014, ore 23 (minuto più, minuto meno): l’arbitro olandese Kuipers fischia la fine del derby madrileno più importante di sempre, quello dove il Real batte 4-1 ai supplementari i rivali cittadini dell’Atletico, conquistando la Décima e negando ai colchoneros la prima gioia europea della loro storia. In quel momento, per un tifoso dei Blancos, Carlo Ancelotti è qualcosa di vicino a una divinità. Un signore pasciuto e dotato della calma dei forti, un vincente nato riuscito in quella che è a suo modo un’impresa: non solo riportare la Coppa dalle grandi orecchie al Bernabeu dopo 12 anni (l’eternità, per gli standard del club) ma anche trasformare in squadra compatta e spietata quella che fino a poco tempo prima era solo un bellissimo ammasso di fuoriclasse. Riuscire insomma dove persino lo Special One aveva fallito.

Basta questo per avere un biglietto di sola andata nel cuore dei tifosi del club più titolato al mondo? Neanche per sogno. Perchè il viaggio dal tetto del mondo (raggiunto coi fatti nel dicembre scorso, col trionfo nel Mondiale per club) all’avamposto da combattimento che lo vede da solo contro il popolo del Bernabeu, per Carletto è durato pochi mesi. Certo, non capita spesso di vedere il Real prendere 4 gol, dominato e battuto fra le mura amiche da una squadra, sì bellissima ma non da Top 10 europea, come lo Schalke 04 (a proposito, tanti complimenti al nostro Roberto Di Matteo). Ed è pur vero che lo stato di forma espresso di recente da CR7 & co. è apparso tutt’altro che galactico: due partite consecutive senza vittoria in Liga (la sconfitta di Bilbao è costata la vetta, presa dal Barça), un gioco latitante e la BBC che segna sempre di meno (Bale, nervosissimo, non va a bersaglio da 9 gare). Gli elementi per un disamoramento ci sono tutti, specialmente se si parla del pubblico più esigente al mondo, insieme a quello del Camp Nou. La sensazione però è che la verguenza di cui parlano i tabloid spagnoli sia imputabile a un’escalation di insoddisfazione e rabbia ancora da sbollire per il derby perso (anzi, stra-perso) un mese fa al Vicente Calderòn.

Sì, d’accordo. Il momento è complicato e, mentre la qualificazione in Champions è avvenuta per il rotto della cuffia e con dubbi meriti, in campionato si è dilapidato un cospicuo vantaggio nei confronti del Barça. Ma non sarà un po’ troppo per gli hashtag #AncelottiVeteYa e per i titoli indignati dei quotidiani locali? O sarà semplicemente che a certi modi di pensare ci si abitua difficilmente, specie se ci si mette nei panni degli addetti ai lavori. Di chi fa, di chi un giorno è un messia, l’altro un ferrovecchio. Di chi deve sottostare – è il gioco delle parti – all’implacabile macchina del giudizio di chi guarda e giudica, spesso più con il cuore (o con lo stomaco) che con la testa. É capitato allo stesso Di Matteo, dopo aver vinto – anche lui, almeno in parte – una Champions.

C’è un video, tuttora presente su Youtube, che è eloquente spia di un modo di pensare: è un dialogo abbastanza concitato, faccia a faccia, tra Maurizio Zamparini, presidente del Palermo, e un rappresentante della tifoseria rosanero, sul piede di guerra per gli scarsi risultati raggiunti dalla squadra in quel momento (era la stagione 2012-2013, quella della retrocessione in B). Zamparini, al tifoso che chiede spiegazioni, risponde con una frase semplice, banale ma tremendamente vera: “Nella vita ci sono alti e bassi.”

Perchè alla fine la figura dello scemo la fa il tifoso. Non necessariamente il tifoso che legge queste righe, niente affatto quello che soffre come un dannato per i propri colori, a prescindere dal fatto che si trovi al Bernabeu, a Old Trafford o al Fratelli Paschiero di Cuneo. Fa la figura dello scemo quell’essere mitologico che pretende, dopo aver pagato l’abbonamento (allo stadio o in Tv) che i momenti difficili, per la propria squadra, non esistano. Che considera – e questo è costume di un certo modo di intendere il calcio, che parte dai media – l’allenatore come il più classico e sacrificabile capro espiatorio, quell’anello debole che, una volta eliminato, rimetterà le cose a posto. Eppure, nella storia, non si sono certo fatte prendere dalla smania nè lo United, che ha atteso il primo trofeo importante conquistato da Ferguson (in panchina dall’86) per sei anni, nè l’Arsenal, che da quasi vent’anni ha affidato le chiavi di casa a Wenger, che in quanto a vittorie non è proprio un cannibale.

E allora, caro Carletto, dai pure retta a quegli stupidi slogan, intrisi di memoria corta e ingratitudine: vattene via da lì, l’Italia ti aspetta.

[Ph. Credits: AFP]