C’è stata un’era in cui il cinema italiano sembrò pulir via l’alone di immobilità che lo caratterizzava da decenni, prigioniero di cliché duri a morire e di un cronico provincialismo che lo rendeva a tratti bello e quasi mai interessante. In quell’era le produzioni nostrane sfidarono sul loro campo i colossi americani ed europei, senza scimmiottarli, anzi, adattandoli a una realtà nazionale sempre più disgregata e virtuale. Quell’era non è dato sapere quando esaurì la propria spinta, perché è ancora in corso: benvenuti nell’entusiasmante biennio 2015-2016 del cinema italiano.
È un po’, per capirci, come se l’effetto di Smetto quando voglio, secondo alcuni il film italiano più innovativo degli ultimi anni, si stesse ancora propagando, ma con una frequenza che poco tempo fa era difficile da immaginare. Gli ultimi due eclatanti esempi di Rinascimento della settima arte nel Belpaese si collocano, come data d’uscita, a febbraio, stagione cinematografica per antonomasia, e corrispondono ai titoli di Perfetti Sconosciuti e Lo chiamavano Jeeg Robot. Il primo, diretto dall’ormai garanzia Paolo Genovese, a un mese dall’uscita (11 febbraio) si mantiene ancora saldamente nella Top 5, superando abbondantemente i 12 milioni di incasso. Il secondo, primo lungometraggio di Gabriele Mainetti, è una operazione talmente riuscita che ci si sta quasi dimenticando che a breve arriverà Batman vs. Superman, una sorta di Coppa del Mondo per gli appassionati del genere. Perfetti Sconosciuti e Lo chiamavano Jeeg Robot sono tuttavia, come abbiamo detto, gli ultimi campioni di una rinascita, oltreché ulteriori prove di un aspetto che pare ormai essere cristallino: la produzione italiana riesce sempre più frequentemente a proporre prodotti di qualità per la massa, andando dunque oltre l’intrattenimento collaudato di Checco Zalone.

Torniamo indietro di pochi mesi: a ottobre 2015 arriva nelle sale, con pochi squilli e poche trombe, Suburra, probabilmente il miglior noir italiano degli ultimi dieci anni e certamente la consacrazione di Stefano Sollima, formidabile artigiano della cinepresa, che già sul piccolo schermo aveva incantato con le serie di Romanzo Criminale e Gomorra (quest’ultima diretta insieme a Claudio Cupellini e Francesca Comencini). Sollima, figlio di un altro cineasta (Sergio Sollima) che di age d’or del nostro cinema ne sapeva qualcosa, fa propria la lezione stilistica di un maestro americano del genere come Michael Mann, ma soprattutto si abbevera a piene mani alla fonte da cui lui stesso ha preso forma: la televisione, intesa come teatro delle serie.
È ormai lapalissiano che tra il piccolo e il grande schermo vi sia un rapporto di scambio intenso e costante, che è ancor più palese se si considera l’identità di produzione (Cattleya) che unisce il meglio delle serie tv nostrane col meglio del genere visto sul grande schermo. Nulla dunque è casuale, non lo sono nemmeno i volti scelti. Nel film di Sollima, nel ruolo di un giovane e determinato boss di Ostia c’è Alessandro Borghi, che al grande pubblico dirà ancora poco, ma che si può già fregiare di essere tra i protagonisti del film italiano proposto per la scorsa edizione degli Oscar, se pur scartato dalla shortlist finale. Quel film, Non essere cattivo, realistica e straziante canzone d’addio di Claudio Caligari, vedeva come co-protagonista, insieme a Borghi, Luca Marinelli, che veste i panni di uno dei personaggi più sgradevoli e difficili da dimenticare della nostra storia cinematografica recente. Difficile da dimenticare come il suo Zingaro, cattivo (o villain, com’è ormai consuetudine dire) di Jeeg Robot, nemesi del supereroe, che ha il volto di Claudio Santamaria.
A proposito di caso: Lo chiamavano Jeeg Robot pare un gioiello sbucato dal nulla ma la storia del suo regista, Gabriele Mainetti, dimostra che anche qui di casuale c’è ben poco. 40enne romano, cinefilo dalla prima ora, alla fine degli anni ’90 inizia una trafila trasversale, compiendo un percorso da attore che lo porta dalla TV di intrattenimento (Un medico in famiglia, La nuova squadra) al teatro. Dietro la cinepresa si cimenta inizialmente in cortometraggi, poi decide di fondare la sua casa di produzione, Goon Films, che prima di Jeeg Robot, aveva realizzato Tiger Boy, corto considerato dall’Academy per gli Oscar 2013, poi non rientrato nella shortlist. Anche Tiger Boy si basava sull’emulazione di miti: in Jeeg Robot è quella di un celeberrimo personaggio nipponico, nel corto quella di un wrestler di Corviale. Ulteriori prove di una poetica che sogna coi piedi per terra, di un occhio che si muove ambizioso e impavido, seguendo supereroi che saltellano per Tor Bella Monaca.

Se poi Roma è protagonista – e non solo sfondo – sia di Suburra che di Jeeg Robot (per non tornare a La grande bellezza), è perché è ormai acclarato che il Rinascimento del cinema italiano ha trovato la sua capitale in quella geografica. Così come il romanesco divenne idioma ufficiale della commedia all’italiana dei tempi d’oro, così il romano diventa il tipo ideale su cui porre le basi della commedia contemporanea, in cui all’Italia viene sempre più agevole guardarsi allo specchio: Perfetti Sconosciuti sfrutta alla grande tale atmosfera, puntando sull’accento capitolino di Edoardo Leo (Smetto quando voglio ma anche regista, tra l’altro, del riuscito Noi e la Giulia), Valerio Mastandrea e Marco Giallini. Che curiosamente interpreta un chirurgo, ruolo ricoperto pure in Se dio vuole, delizioso esordio alla regia dello sceneggiatore Edoardo Falcone, uscito nell’aprile dello scorso anno.
La regia intelligente di Genovese, la leva fatta sui precari equilibri e le ossessioni digitali della società odierna e una sceneggiatura meravigliosamente scritta fanno di Perfetti Sconosciuti l’evoluzione positiva di un prodotto simile, per genere, come Il nome del figlio (Francesca Archibugi), e lo rendono paragonabile a esempi ingombranti come il Festen di Thomas Vinterberg.
Come cantava la Orietta nazionale, finché la barca va, lasciala andare. E lasciamolo andare il nostro cinema, perché noi ci stiamo divertendo parecchio.