Ognuno ha le sue ragioni, chi più, chi meno. La verità è che non ce n’è una, tra queste, che stia in piedi. L’ultima giornata di campionato ci consegna un quadro ai limiti dell’ironia verista, della serie “non ci crederete ma è successo davvero”. È successo che a Cagliari abbiano deciso di dare ai propri giocatori la spinta decisiva verso la serie B demotivando definitivamente una squadra partita con altre ambizioni. È colpa di Zeman, è colpa di Zola, è colpa dei senatori, è colpa dei giovani. Allora, per non fare differenze, meglio fare irruzione all’allenamento e prendere a sberle chi capita. Tanto male non gli fa, che vuoi che siano due schiaffi. È successo che a Roma qualche tifoso abbia deciso di sfilare con uno striscione dedicato a Pallotta, e che di certo non lo ringraziava per quanto fatto negli ultimi anni, e cioè da quando ha rilevato la Società dalla disastrosa gestione Sensi. Di solito si tende a minimizzare, utilizzando l’aggettivo pseudo davanti a tifosi. Ebbene, ci siamo stancati, francamente di questi pseudopersonaggi che credono di avere chissà quale potere all’interno del calcio.
Sono gli stessi che dieci anni fa si permisero di far sospendere un derby senza motivo, gli stessi, tanto per essere chiari, che si sono permessi di fischiare, nel giorno della sua partita d’addio, un certo Paolo Maldini, reo di non essere molto incline ai dialoghi con gli ultrà oltre che reo di aver alzato al cielo cinque, dico cinque, Coppe dei Campioni. Quelli che dopo una sconfitta chiedono alle società di poter avere un faccia a faccia (non vi suona già come una scortesia questo termine?) con i giocatori. E le società che fanno? Nella maggior parte dei casi lo permettono, mettendo i loro giocatori nelle condizioni di dover giustificare prestazioni negative con parole di circostanza “Onoreremo la maglia, dobbiamo uscire sudati dal campo, lacrime e sangue”, tanto per citare qualche ritornello famoso, pronunciate a testa bassa. Il rinnovamento del calcio, come quello del Paese, parte anche dalle parole.

Sinceramente siamo stanchi. Per quanto abituati a non sconvolgerci davanti ad un “Pallotta maiale”, restiamo basiti davanti a chi vuole giustificare degli striscioni indegni esposti per dire (ancora una volta) la propria sulla morte di Ciro Esposito. Qui non si tratta di scelte di mercato, di contestazioni civili (altra parola che odio, ci ritorneremo), di cori ironici. Qui si tratta di ignoranza, nel giorno in cui un po’ di silenzio avrebbe fatto bene a tutti. Già, la contestazione civile. In Spagna si chiama panolada, dal momento che si tratta di sventolare fazzoletti bianchi. Qui da noi “civile” vuol dire che non è stato picchiato nessuno, ma alle parole danno peso in pochi. Dire “maiale” ad una persona, sia essa il Presidente o un giocatore, o il magazziniere, non è civile. Chiedere ai giocatori di andare sotto la curva a prendersi gli insulti, come capitato qualche settimana fa agli interisti Guarin e Icardi, non è civile. Pretendere di gestire il merchandising di una società sportiva, non solo non è civile, è anche illegale. È che in questo calcio (che se è una metafora è la migliore per rappresentare il nostro Paese) di civile è rimasto ben poco.
Non è ammissibile che a Varese si devasti il campo di calcio prima di una partita, per contestare una società appena arrivata, non è giustificabile, al contempo, che nessuno vegli sull’identità (non solo finanziaria) di questi Presidenti che si stanno insidiando in serie A come in serie B, senza nessun tipo di garanzia, non solo economica. Qualcuno dirà che queste cose sono sempre successe, eppure sembra arrivato, per le società, il momento di fare qualcosa. Bisogna salvaguardare chi vuole godersi lo spettacolo, chi è disposto anche ad accettare una retrocessione, chi non va in escandescenza per un rigore non visto. Il calcio non può essere nelle mani degli ultrà perché non sono loro i custodi della verità né i rappresentanti della maggior parte degli appassionati. E non basta più mettere l’aggettivo “pseudo” davanti alla parola “tifoso” per giustificare qualunque ingerenza. Ha ragione Carlo Ancelotti quando dice che da noi la violenza si nota più che da altre parti perché i giocatori sono ostaggi di tifosi senza cervello. Non è tutto negativo, ci mancherebbe. Occorre ripartire per esempio dai 75.000 innamorati che si sono ritrovati, domenica sera, a San Siro per godersi un derby senza senso, senza gioco e obiettivi, per il gusto di esserci e di tifare per la propria squadra. Bisogna ripartire da chi ha capito che i soldi sono finiti ma la passione no. E che perdere non piace a nessuno. Nemmeno ai giocatori, persino quando non sono ostaggi di nessuno.
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