Dietro agli abiti che indossiamo ci siamo noi, con le nostre emozioni, sensazioni e i nostri bisogni. Dietro alla maggior parte di questi abiti ci siamo noi e migliaia di altre persone, che con sacrificio e duro lavoro producono quello che noi acquistiamo con grande facilità, ampliando più o meno inconsapevolmente lo spazio che viene dato ai consumi rispetto alla realtà di produzione. Sì, perché dietro all’immenso mercato che propone all’occidente una grande varietà di prodotti pronti per l’uso, c’è un mondo ancora sconosciuto oppure mantenuto nell’oscurità dello sfruttamento, a ritmi insostenibili di dure giornate di lavoro.

E non si tratta solo di un mito che si cela dietro un’etichetta che dichiara la produzione del capo d’abbigliamento, ma di un’esperienza di vita quotidiana che è stata spesso documentata. L’ultima testimonianza risale proprio allo scorso anno quando tre blogger di moda norvegesi hanno accolto la proposta della trasmissione “Sweatshop: Deadly Fashion” di lavorare per un mese come operai all’interno di una fabbrica tessile della Cambogia. Le lacrime e la stanchezza delle tre occidentali sono al centro del documentario, che mostra il percorso dei blogger, dall’entusiasmo della partenza alla sofferenza più totale di fronte al ritmo insostenibile delle giornate di lavoro. Il momento culminante della serie è stato però quando una ragazza di 19 anni ha raccontato a una delle norvegesi sua coetanea che questa difficile vita quotidiana è preferibile al morire di fame, come è successo a sua madre.

Bisogna però specificare quanto in realtà lo stile di vita di una blogger di moda norvegese sia differente da quello di una sua coetanea cambogiana, nata e cresciuta in un ambiente ostile dal punto di vista sociale che si ripercuote in maniera diretta sull’ambiente lavorativo. Il sacrificio e il duro lavoro caratterizzano la vita di queste persone molto lontane culturalmente dalla vita occidentale, incentrata su un consumismo anche eccessivo, ma che mette a disposizione tutto con grande comodità. Questo non giustifica però l’ingiustizia della sottomissione umana, dello sfruttamento di chi è disposto a sacrificarsi integralmente per un misero guadagno. Eppure alcuni brand non guardano il viso dei propri operai, preoccupandosi più delle proprie tasche, che delle vite che hanno tra le mani e che spesso gestiscono proprio come un burattinaio con le proprie bambole. Non è infatti una novità che nei paesi del sud-est asiatico milioni di persone lavorino anche per 16-18 ore al giorno senza alcuna tutela, con uno stipendio molto al di sotto della nostra concezione di “salario minimo” e in condizioni igienico-sanitarie precarie.

Al centro del ciclone ci sono quasi sempre le catene low cost, dimostrando come in realtà il prezzo da pagare sia molto più alto di quello che si pensa. Dietro la moda low cost ci nasconde una cruda realtà fatta di prostituzione, sfruttamento e schiavitù. Un panorama ampio e difficile che non arriva fino in occidente, dove in fondo sembra più semplice coprire occhi e orecchie e continuare a incentivare un meccanismo che di moda ha ben poco e di umano ancora meno. Da una delle tre blogger inviate nella fabbrica tessile cambogiana, produttrice di capi per il colosso H&M è partita una denuncia diventata virale con una richiesta generale di boicottare la catena e i suoi abiti. Fino al punto che la stessa azienda ha chiesto di poterla incontrare nella sede principale di Stoccolma annunciando, nello stesso tempo, di aver preso provvedimenti nei confronti dei laboratori tessili a cui commissiona la realizzazione degli abiti, affinché si impegnassero a migliorare le condizioni di vita dei propri operai. Anche catene low cost come Zara e Primark sono finite spesso sotto accusa: l’azienda spagnola fu accusata nel 2011 di schiavitù e sfruttamento del lavoro minorile e obbligata a pagare una multa di oltre 400.000 euro oltre a risarcire tutti gli operai. Inoltre in quell’occasione i vertici della compagnia furono invitati a scusarsi pubblicamente di fronte alla Commissione dei Diritti Umani di San Paolo. Ma lo stesso è avvenuto anche per la catena inglese che lo scorso anno ha fatto i conti con un messaggio disperato proveniente dai detenuti cinesi, che hanno chiesto aiuto con un biglietto inserito all’interno di un paio di pantaloni.

Realtà lontane da noi, ma allo stesso tempo così vicine, in un unico filo che lega consumatori, produttori e lavoratori. In qualità di consumatori si ha però la possibilità e il dovere dal punto di vista etico, di interrogarsi sulla provenienza dei propri acquisti. Si ha il potere di incidere sul mercato, influenzando la domanda e l’offerta. Di fronte a un’opzione poco sostenibile o non in grado di rispettare i diritti umani, vi è sempre un’alternativa data dalla possibilità di scegliere. O meglio, dalla volontà di farlo.

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