Il bello delle donne è che hanno paura, ma alla fine trovano il coraggio di fare tutto“. Come lasciare la vita di sempre, i genitori, i parenti, gli amici, il lavoro e (ri)cominciare tutto da capo, in un Paese diverso dal proprio, per usi, costumi e tradizioni. Un Paese che, però, riesce a restituire quella voglia di fare e, soprattutto, di vivere, che mancava da un po’, da quando quella città o quel paesino in cui si è nati e cresciuti iniziava a stare troppo stretto. Arriva un giorno, infatti, in cui il coraggio prende il sopravvento e sconfigge quella paura che da sempre trattiene e non fa spiccare il volo, verso un qualcosa che forse può regalare quella felicità tanto desiderata. Chissà.

Felicità che le donne che fanno parte del gruppo “Donne che Emigrano all’Estero” sono riuscite a conquistare. Con amore, dedizione, passione ed impegno, e non senza momenti di difficoltà e di sconforto, dovuti sia alla mancanza dei propri cari e delle proprie abitudini che al fatto di dover mettersi in gioco per iniziare una nuova vita, da sole, con il partner o con figli a carico. Ma tutte ce l’hanno fatta, anche dandosi forza a vicenda attraverso la pagina Facebook che, grazie al grande successo, ha creato un sito e scritto un libro dal titolo omonimo, acquistabile online su Amazon. La pagina ed il libro, oltre ad essere un supporto per chi ne fa parte, sono anche un valido esempio per chi, da fuori, legge le storie di queste donne che hanno avuto paura, ma soprattutto coraggio.

Alcune di loro, che ora vivono fuori dall’Italia, si sono raccontate a noi de Il Giornale Digitale, spiegandoci cosa le ha portate a lasciare il nostro Paese per un’altro, raccontandoci i punti di forza della loro esperienza, ma anche le mancanze e i problemi.

Credits: Donne che Emigrano all'Estero
Credits: Donne che Emigrano all’Estero

A rompere il ghiaccio è un’emigrata alle Seychelles, Katia Terreni, founder e coordinatrice del progetto “Donne che Emigrano all’Estero”.

La pagina Facebook “Donne che Emigrano all’Estero” è nata grazie a te. Qual è stata la ragione più profonda che ti ha spinto a crearla?

La ragione profondissima, che rivelo oggi ufficialmente per la prima volta, risale al tempo in cui scrivevo come Editor per un’altra pagina Facebook simile. Era un’attività che mi piaceva moltissimo, avevo trovato una modalità di utilizzo del tanto discusso social, che a me pareva intelligente: raccontare le mie Seychelles giorno per giorno, fornendo informazioni sulle isole e, al contempo, esprimendo le mie sensazioni di espatriata lontana da casa. Era il 2013 ed ancora il Facebook non era inflazionato da questo genere di pagine.
Quando quella pagina cominciò a non funzionare più mi riproposi di creare un’altra pagina simile, dedicata cioè agli italiani all’estero, ma solo al “femminile”. Le donne sono molto più interessanti da leggere, i loro scritti scaturiscono dal cuore e dalle viscere. La mia pagina non avrebbe subito le sorti di quella per cui scrivevo prima: svolgendo un lavoro manageriale di professione decisi di applicare alla gestione della pagina Facebook – ed al sito web – gli stessi criteri che utilizzo per gestire progetti , risorse umane e budget per le aziende per cui lavoro. Funzionò: molte donne expat aderirono all’iniziativa ed i loro post furono seguitissimi fin da subito. La pagina crebbe velocemente e la voglia di trasformare un fuggevole social post in un articolo dalla vita più lunga ha dato luogo alla creazione del sito web.
La volontà di permanenza si è concretizzata appieno con la realizzazione del nostro libro, unico nel suo genere perché raccoglie le storie di 34 donne expat dalla loro “viva voce”. Il libro “Donne che Emigrano all’Estero” si distingue nel vasto panorama del self-publishing perché è stato concepito come un vero prodotto editoriale di stampo professionale: la curatela dei testi è stata affidata ad un Editor professionista che ne ha rimaneggiato l’intero contenuto, allo scopo di dare un tocco letterario ed una perfetta fruibilità di lettura a chi desidera avventurarsi tra le nostre pagine. Inoltre, ci distinguiamo anche per un’altra ragione: non perseguiamo fini di lucro con la vendita del nostro libro perché i proventi andranno in beneficenza alla Onlus AiBi, che si occupa di infanzia in difficoltà e di adozioni internazionali.

Pensi che le vostre storie possano essere una spinta per chi da tempo vuole partire ma non ha il coraggio di lasciare la sua vita di sempre?

Decisamente sì.
Raccontiamo cosa si prova a vivere lontano da casa, quali sono state le spinte motivazionali di una scelta tanto complessa. Non facciamo segreto delle mille difficoltà che si possono incontrare prendendo una decisione simile e, al tempo stesso, sveliamo come ci siamo organizzate per il trasferimento, che a volte è avvenuto in solitaria ed altre volte con l’intera famiglia. È fondamentale che si parli apertamente delle problematiche connesse all’espatrio affinché non si creino false aspettative. È altresì importante fornire esempi positivi perché vivere all’estero ha molto da insegnare circa la scoperta delle proprie risorse interiori e la crescita della fiducia nella nostra capacità di affrontare l’ignoto.

La seconda ad essere intervistata è Elena Fanelli, milanese ormai trapiantata felicemente a Londra da anni.

Viaggi molto, sia da sola che con i tuoi due figli, che hai abituato fin da piccoli agli spostamenti. Oggi, purtroppo, però, c’è una forte paura di viaggiare collegata al terrorismo. Secondo te che cosa si può fare per combatterla e continuare a vivere da “wanderlust”?

Convivo con quella che io definisco “ansia da viaggio” da sempre. È un’ansia particolare che mi colpisce quando viaggio da sola, in quanto sono una mamma single di figli ancora piccoli – 14 e 8 anni – e sono quindi il loro mondo. In questi anni di viaggi sono successe varie cose, a livello mondiale: ricordo in particolare il famoso vulcano islandese che ebbe la “buona idea” di esplodere proprio il giorno prima del mio viaggio in Italia per riportare a casa i miei figli dalle vacanze pasquali.
Vivendo a Londra, sono abituata a vivere con la paura legata al terrorismo. Io poi lavoro nella City, che potrebbe sicuramente essere uno dei primi obiettivi terroristici. Ero già a Londra durante gli attentati del 7 luglio 2005 e uno dei treni colpiti era proprio nella City. Mi e’ spesso capitato che prima di un mio viaggio succeda una disgrazia aerea: esempi recenti sono stati l’aereo scomparso in Malaysia oppure il pilota che volontariamente schiantò l’aereo pieno di studenti sulle montagne francesi.
Ho fatto questa lunga premessa per dirti che non ho una risposta. Mi spiego. Non possiamo lasciarci condizionare dalla paura, smetteremmo di vivere. Inoltre, come si può prevedere che sarà proprio quell’aereo, quel treno, quel bus, quella città, quella nazione ad essere colpita? Non si può, per fortuna. Si va avanti, consapevoli dei rischi ma allo stesso tempo vogliosi di vivere la propria vita e le proprie esperienze. Quindi noi continuiamo a viaggiare. Io tra poco partirò per l’ennesimo viaggio di lavoro, quest’estate forse andremo in Italia o altrove: continuiamo come sempre. Fermarsi vorrebbe anche dire che il terrorismo ha vinto.

Sei a Londra da anni ormai e sei lontana dai tuoi cari. Quanto è difficile vivere a distanza da loro, potendoli vedere dal vivo solo durante le vacanze?

La distanza per me è stata una necessità: io trovo la famiglia e la società italiana troppo soffocanti, avevo bisogno di spazio e “anonimia”, che ho trovato qui a Londra. La distanza mi ha permesso di scegliere e di vivere liberamente: sono fortemente indipendente ed anche individualista, nel senso che non ho bisogno di “appartenere” per sentirmi bene. Quindi la distanza in sé stessa per me non è stata difficile.
Quello che succede però con la distanza è che ogni volta che torni trovi i genitori un pò più vecchi, con qualche acciacco in più, ed ogni volta è una sorpresa. Succede che i tuoi sono malati, e tu non ci sei. Mio papà, ad esempio, rimase in ospedale 6 mesi prima di morire: io feci in tempo a vederlo durante le vacanze pasquali e riuscii ad esserci quando lui mancò. Solo quando sono in Italia mi rendo conto che lui non c’è più; al contrario, quando sono a Londra mi succede meno perché sono stata abituata per anni a vederlo in poche occasioni. Ora è rimasta solo mia mamma, che ha qualche acciacco e soffre di solitudine, ma forse verrà a vivere con me.
Quando si è expat, la responsabilità nei confronti di chi e’ rimasto è forte, in particolare nei confronti dei genitori. Non credo però si possa rinunciare ad essere se stessi, e ad andare dove ti porta il cuore – per citare un famoso libro italiano – per la propria famiglia. Io ho colto la mia occasione e sono grata ai miei genitori che mi hanno dato la libertà di coglierla, anche se per loro non e’ stato facile.

Da Vancouver parliamo con Elena Caselli, che si è trasferita lì circa due anni fa.

A Vancouver c’è l’abitudine di ringraziare l’autista quando si scende dall’autobus: il lavoro, infatti, viene visto in modo un po’ diverso rispetto al nostro Paese. Ci spieghi che cosa vuol dire lavorare in Canada?

Il Canada è molto grande e ci sono tante differenze tra un posto e l’altro. Posso dirvi come è lavorare a Vancouver, una città piccola – per me che vengo da Roma – ma molto dinamica a e vivace. C’è molto rispetto per il lavoro e per le persone che lo svolgono. Generalmente la gente è molto paziente e comprende le difficoltà di un newcomer – lingua, ritmi, metodica di lavoro diversi.
A parte il grande rispetto per il tempo libero e l’attenzione affinché ci sia un equilibro tra vita privata e lavorativa, qui le due cose che sento davvero diverse dall’Italia sono la meritocrazia, ovvero se vali vai avanti, e la regola che l’audacia premia sempre. Fare un colloquio, chiedere un aumento, passare ad una posizione superiore. Bisogna solo chiedere e, se effettivamente hai le carte in regola, avrai ciò che vuoi. Viceversa la scarsa intraprendenza, lo stare solo al proprio posto, l’aspettare che qualcun altro ci riconosca i nostri successi non portano risultati. Sono apprezzati il coraggio, l’iniziativa e la competenza, ed il bello è che non vanno avanti i soliti “figli di papà”.

Nella tua nuova città avete creato un gruppo Facebook chiamato “Italian Moms in Vancouver”, in cui tutte le mamme italiane si aiutano a vicenda. Quanto ti ha aiutata la solidarietà – soprattutto tra donne – essendo lontana dai tuoi cari e dalle tue amicizie?

Ho avuto la fortuna di non essermi sentita mai davvero sola. All’inizio vivevo un po’ nel turbinio dell’eccitazione di chi è appena arrivato, un po’ i miei figli mi tenevano molto impegnata, poi ho fatto presto nuove amicizie e dopo pochi mesi che ero qui ho avuto l’idea del gruppo per radunare tutte le mamme che avevo incontrato.
L’aiuto e il supporto materiale e psicologico che viene generato da questo gruppo è enorme. Stare lontane da casa soprattutto in fasi delicate come la gravidanza, la nascita e i primi mesi di un figlio è durissima e molte di noi le hanno affrontate coraggiosamente. Ma anche la routine di tutti i giorni, la voglia di parlare la stessa lingua, di trovare qualcuno che ci capisce, che ha avuto esperienze simili alle nostre vuol dire molto, può fare la differenza. Ed in effetti la fa, tra giornate buone e meno buone. La solidarietà tra mamme è cosa vera. La generosità, la curiosità, la voglia di costruire legami è una prerogativa molto femminile e sono felice di aver messo su questo bel gruppo – con 78 membri – e di gestirlo con la mia amica Silvia. Ma questo gruppo è di tutte e tutte hanno l’iniziativa e la prerogativa di farlo vivere ogni giorno mettendo post diversi, scrivendosi, cercando ed offrendo aiuto, sfogandosi e raccontandosi. Le mie amiche, e tutte le mamme che ne fanno parte, mi sono sempre di grande conforto e spero di esserlo io per loro. Insieme ci siamo inventate tante iniziative, dal corso di teatro alla festa di Natale, passando per piccole e grandi riunioni per le più diverse occasioni. Cose che rendono la nostra vita qui meno “straniera”.

Credits: Donne che Emigrano all'Estero
Credits: Donne che Emigrano all’Estero

Continua Catia Camillini, che ha girato mezzo mondo e alla fine ha deciso di andare a vivere a Singapore.

Il viaggio è importante, parte della tua vita. Quanto conta nella vita privata, ma anche professionale il fatto di aver viaggiato e saper entrare in contatto con diverse culture? Che cos’ha in più una persona abituata a viaggiare?

Col tempo ho scoperto che il viaggio è molto più di una parte della mia vita: il viaggio è la mia essenza. Il viaggio è tutto per me: l’entusiasmo, la curiosità e lo stupore della natura di questo mondo come delle capacità umane. Il viaggio è vita di per sé, e procede parallelamente alla mia vita, e con lei si fonde. Il viaggio è continuo, è ogni giorno, sia che io mi sposti di luogo in luogo, sia che io mi assesti in una città, perché esso continua con le esperienze della quotidianità, che non è mai monotona e porta sempre novità e diversità: dall’imparare gli usi e i costumi tradizionali alle leggi locali, dall’assaporare il fascino dell’atmosfera come della cucina, per fare alcuni esempi. Se poi la città è multietnica allora le fragranze e le cose da scoprire e imparare si moltiplicano e non c’è mai fine, si passa dal passato, al presente fino alle future prospettive di quel paese, che in qualche modo diventano anche mie e, a volte, addirittura, imprimendosi per sempre. Il viaggio e queste svariate esperienze mi appartengono ormai al punto tale da avermi senza dubbio cambiato, e credo migliorato. La mia vita privata è costantemente infusa di questi sapori e apprendimenti a tutto tondo e la mia evoluzione è sicuramente percepibile da chi mi conosce da lungo tempo.
Ma, paradossalmente, il viaggio e il contatto con diverse culture permette anche di conoscere meglio sé stessi, aiuta a spingere e a forzare i propri limiti molto spesso riuscendo a superarli, con nostro intimo stupore. Più si vive a disposizione dell’acquisizione di nuove realtà, più si trovano le radici di noi stessi, e il tutto porta alla consapevolezza, alla maturità e alla serenità. I miei viaggi e il lasciarmi affascinare dalle terre e dalle persone che ho incontrato mi ha sempre rinvigorito, ed è sempre stata e continua ad essere la cosa più bella che potessi regalare a me stessa e a chi mi sta vicino.
Ancora, il viaggio mi ha reso estremamente versatile e agile davanti alle situazioni della vita, ai suoi imprevisti e anche ai suoi problemi e così reattiva mi sento anche nel mondo del lavoro. La mia curiosa e svariata conoscenza mi ha permesso di inserirmi nella vita quotidiana come nell’ambiente lavorativo ovunque mi trovassi: saper conversare, interagire e capire un Vietnamita o un Giordano, piuttosto che un Americano o un Indiano, un Cinese Cantonese o un Giapponese, un Iraniano o un francese – per fare solo alcuni esempi – non è per nulla scontato e regala compiacimento ad entrambe le parti. In questo modo, nel mondo del lavoro si riesce a rispondere in maniera veloce ed efficace alle varie necessità e a risolvere, allo stesso tempo, i più svariati problemi. Nel mondo della comunicazione in specifico, dalla quale io provengo, sono riuscita ad ampliare la mia creatività e ad offrire risoluzioni e prodotti pubblicitari soddisfacenti a chiunque fosse il mio interlocutore, di qualsiasi nazionalità egli appartenesse, e questo mi ha sempre fatto sentire molto viva, cittadina del mondo, ed è sempre stata una sensazione stupenda.
Una persona abituata a viaggiare, camaleontica nell’accostarsi alle diverse culture con interesse e compiacimento, ha semplicemente il mondo nelle mani, e di questo mondo si arricchisce infinitamente.

Circa un mese fa è avvenuta la strage del pullman Erasmus, che ha fatto molto discutere e ha alimentato il timore di vivere un’esperienza così bella all’estero. Secondo te si è aggiunta una nuova paura per chi parte per quest’avventura?

No. La tragedia del pullman Erasmus è l’ennesima e incolmabile tragedia avvenuta a causa di un errore umano e questo fa parte della fatalità della vita, purtroppo.
Un incidente, qualunque sia la sua origine, può avvenire ovunque, anche sotto la porta di casa in Italia, e nessuno può precludersi di vivere per paura della fatalità. Non ci si può rinchiudere neanche per paura del terrorismo. Si deve cercare di fare attenzione, questo sì, si deve cercare di essere responsabili non andando a cercare i guai, ma non si può privarsi di fondamentali esperienze, anche di viaggio, per paura che qualsiasi cosa possa succedere. E oggi che sono mamma lo dico col cuore anche più aperto e consapevole di una volta.

Isabelle Niscemi, invece, arriva dalla più lontana Asia e, precisamente, dal Kuwait.

Vivi in Kuwait e fai l’insegnante. Quanto cambia il metodo di istruzione tra l’Oriente e l’Occidente, in particolare rispetto all’Italia?

Lavoro in una scuola internazionale che segue il sistema inglese, quindi è similare all’Europa con la differenza che qui devono studiare anche la lingua Araba e il Corano chiamato “Islamic Studies”: questo é obligatorio per tutti i bambini musulmani. Se non si é musulmani, allora non si deve fare il corso sul Corano, anche se può farlo chi lo desidera. A parte questo, le stesse materie vengono insegnate qui e in Italia.
La grande differenza con l’Italia non è tanto nel contenuto, ma piuttosto nell’approccio da parte degli studenti e dei loro genitori. La scuola è molto importante qui: tutti vogliono vedere i figli andare nelle grandi università all’estero per poter studiare medicina, ingegneria, diritto, e si studia per raggiungere questo scopo. Oltre alle ore scolastiche, è molto comune fare delle lezioni private dopo scuola, anche ogni giorno se c’è bisogno. Gli esami sono di un’importanza capitale: vogliono tutti avere una A, soprattutto in matematica, biologia e chimica, ossia le materie che aprono le porte per gli studi universitari che vogliono fare. I genitori sono molto interessati all’educazione dei loro figli e danno il loro supporto anche ai professori, hanno tantissime ambizioni per i propri figli e forse, a volte, dimenticano i loro sogni, che non sono sempre gli stessi.
Qui, abbiamo tutto il necessario nelle classi: lavagne interattive, chromebooks – per noi e per gli studenti – libri, quaderni. Abbiamo tutto quello che serve per dare il 100% agli studenti. Detto questo, se i risultati non sono all’altezza delle speranze e dagli obbiettivi, allora il lavoro del professore viene messo in questione.
Credo che in Italia ci sia più flessibilità – forse troppa – e troppo lassismo anche per quanto riguarda l’educazione. Inoltre, il governo non fa sicuramente abbastanza per le scuole e non dà i mezzi ai professori per fare il massimo.

Hai parlato anche di parità di diritti tra uomini e donne, anche in base alla diversa condizione sociale. Cosa manca al Paese per non rimanere arretrato?

Prima di parlare di parità tra uomini e donne, bisognerebbe già rispettare i diritti umani che sono fondamentali in un paese detto sviluppato e che, secondo me, portano naturalmente alla parità tra uomini e donne.
Purtroppo in Kuwait c’è ancora tanta strada da fare a questo livello. In teoria, i diritti ci sono ma non in pratica, specialmente se non si è Kuwaitiano e peggio se si viene dall’India, dalle Filippine, dallo Sri Lanka, dal Pakistan. È la triste realtà del Kuwait: ci sono due pesi, due misure e credo che questo freni tantissimo il paese.
Per permettere al paese di andare avanti ci vorrebbero delle leggi chiare e dei diritti per tutti, più controlli che permetterebbero ad ognuno di vivere e lavorare con dignità. Tutto questo porterebbe alla parità degli individui a prescindere dalla religione, dalla nazionalità, dal colore della pelle o dal sesso.

Credits: Donne che Emigrano all'Estero
Credits: Donne che Emigrano all’Estero

Caterina Donzelli, invece, ha scelto come sua nuova città la bellissima Barcellona.

Hai lasciato il tuo Paese e la tua città – che continui ad amare – per amore. Ti sei mai pentita della tua scelta?

Pentita no, però mi è capitato di pensare se avessi fatto la scelta giusta. Generalmente mi succede quando torno a Milano e rientro nei circoli teatrali che frequentavo prima, riprendo la macchina per spostarmi da uno spettacolo all’altro, mi ritrovo con un’amica per registrare una demo di speakeraggio o cose così. Forse se riuscissi a trovare queste collaborazioni più “artistiche” anche qui, non avrei nemmeno questi sporadici momenti di dubbio. O come quando, per esempio adesso, fisso lo schermo del computer cercando di trovare la traduzione di “por otra parte” e mi preoccupo di quanto vocabolario italiano sto perdendo.
In ogni caso quando guardo indietro e penso a quante cose ho cambiato e guadagnato grazie alla vita di Barcellona, il bilancio è molto positivo. Mi sono reinventata come guida turistica, professione che mi piace e mi dà soddisfazioni, ho avuto l’opportunità di imparare spagnolo e catalano, oltre ad approfondire inglese e francese, mi sono abituata alla meraviglia di una corsa in riva al mare o alla spiaggia alle cinque di pomeriggio, appena uscita dal lavoro.
Insomma, Milano e la sua iperattività mi mancano, però se dovessi tornare a viverci mi mancherebbe troppo la leggerezza della vita di Barcellona.

Andando ad abitare in un altro Paese, che cosa si prova per quello natale? Più nostalgia o orgoglio di aver ricominciato tutto?

Io mi sono accorta di essere diventata molto più “nazionalista” da quando vivo fuori. Se qualcuno fa un commento offensivo sull’Italia, la mia reazione impulsiva é “non toccatemela!”. Suppongo si diventi più intolleranti verso gli stereotipi che ci affibbiano e che purtroppo spesso l’italiano stesso mantiene vivi. Si diventa più coscienti della responsabilità sociale di cui siamo investiti come rappresentanti dell’Italia al di fuori del nostro paese.
A volte quando vedo italiani in gita a Barcellona provo sentimenti contrastanti: una gran voglia di manifestare la mia italianità, di fare gruppo e conoscerli, o un rigetto improvviso verso certi tipici atteggiamenti che non ci fanno propriamente onore. Ogni tanto mi è capitato anche di provare un’immensa tenerezza verso l’italiano all’estero: d’improvviso sembriamo così curiosi, a volte lievemente ingenui o simpaticoni, ma sempre, di fondo, buoni.
Da quando vivo qui amo l’Italia più di prima, ne vedo i punti forti e deboli, e non sopporto nè la categoria di expat che vede tutto nero e pensa di avere trovato la terra promessa nel nuovo paese, nè chi rimane expat pur continuando a criticare la nuova città di adozione. Sicuramente ritengo il vivere all’estero un grande privilegio per apprezzare la bellezza italiana in cui siamo immersi e per vederne anche i limiti e difetti, scrollandosi un po’ di dosso l’idea di essere al centro del mondo.

Credits: Donne che Emigrano all'Estero
Credits: Donne che Emigrano all’Estero

Nella città catalana vive anche Chiara Marenco, la quinta intervistata per Il Giornale Digitale.

“Lo spostamento geografico può diventare un dovere quando c’è in gioco la felicità” è la frase che più mi ha colpita del tuo racconto nel libro. Che cosa vuol dire per te essere felici in Spagna?

Riguadagnare finalmente la mia indipendenza economica dopo troppe umiliazioni subite in Italia, sentire che a 35 anni valgo e posso ancora mettermi in gioco, sia ora che nel mio prossimo futuro. E ancora: avere un “Libro di Familia” su cui ci sono il mio nome, quello di mia moglie Sara e spazi vuoti per i nomi dei nostri figli se, come entrambe speriamo, potremo averne. Sapere che la nostra realtà non crea insensato sdegno e che la legge la protegge da chi la disprezza.
Mi fa quasi sorridere leggere, qui in Spagna, lo stupore negli occhi di chi, pur ripetendoglielo, ancora non crede a quanto l’Italia sia arretrata in termini di diritti civili e a quanta fatica e decenni ci siano voluti per arrivare alle porte dell’approvazione di una legge che, a livello europeo, nasce già antica. E io non sono mai stata per i contentini.
Poter ricominciare a sognare, a immaginare mille futuri differenti e, nello stesso tempo, potermi godere un presente modesto, fatto di dettagli, di poco a livello materiale, ma di moltissimo a livello emotivo. Vivere in una città che ha steso, sulle mura del proprio Comune uno striscione che dice “Refugees welcome – Barcelona Ciutat Refugi”.

Hai parlato di doveri civili, collegati a vita privata e professionale. Quali sono le maggiori differenze tra Spagna ed Italia?

Diritti, in realtà, perché i doveri sono proprio quelli di cui siamo pieni in Italia, salvo poi avere scarse o inesistenti contropartite. Non so se è stato solo un caso, ma qui nessuno mi ha mai chiesto la mia situazione famigliare o se ho intenzione di avere figli in sede di colloquio, come discriminante per la mia assunzione.
A Barcellona la nostra lotta è quella di tutti, quella per la costruzione del nostro futuro: qui non abbiamo la necessità di riaffermare quotidianamente ciò che è un’evidenza per chiunque, ovvero che siamo una famiglia. Solo chi vive sulla sua pelle i continui coming out che una coppia dello stesso sesso deve affrontare in un Paese come l’Italia ne conosce il peso e sa quanto sia estenuante affrontarli, solo a causa del fatto che la “normalità”, di cui l’italiano medio si riempie la bocca, è percepita come altra da te. Essere d’altra parte sempre in forse, non sapere con chi poter condividere quello che nessun eterosessuale con un po’ di buon senso catalogherebbe mai come segreto, cioè la propria famiglia, è frustrante e non può essere sano.
Personalmente, raramente scendo a compromessi al di fuori delle mura della mia casa, quindi non mi sono mai riparata dietro un dito, ovunque fossi: non ho nulla da censurare perché non c’è nulla da nascondere, ma, ugualmente, la leggerezza che provo qui non l’ho mai provata nel posto da cui provengo, e me ne sto godendo ogni istante.