Plauso dell’Unione Europea all’Italia ed alla sua rappresentanza femminile nei Consigli di amministrazione: Viviane Reding, vicepresidente della Commissione Ue e responsabile per la Giustizia, parla infatti di «progressi molto forti», anche se ricorda come a trainare il treno sia comunque la Francia. Il succo, comunque, è chiaro: per Reding, dove sono state introdotte leggi specifiche per la parità di genere «si notano i progressi più grandi».

Tali leggi però sembrano arrancare all’interno del Parlamento. Risale per esempio al mese scorso la protesta trasversale di diverse deputate, dopo la triplice bocciatura degli emendamenti alla nuova legge elettorale sull’introduzione delle quote rosa. E dire che finora la condotta del governo Renzi è stata quanto più di politically correct si sia mai visto, con metà esecutivo in rosa e cinque donne su cinque capolista Pd nelle circoscrizioni elettorali per le elezioni europee.

Come da copione, la risposta pronta di Beppe Grillo è arrivata subito. Tra le pagine del suo blog, il comico genovese non ha esitato a pubblicare un fotomontaggio in cui il volto delle candidate è stato montato sul corpo di anonime veline, riunite attorno ad un Renzie-Gabibbo. Una dura critica che puntava a denunciare l’uso strategico della donna “a fini di marketing secondo la migliore tradizione berlusconiana”.

Il facile collegamento sfocia nella questione della donna-oggetto, utile ormai non solo al mondo televisivo ma anche a quello politico. Nel suo caso, Grillo non avrebbe potuto fare riferimento più propizio: quale occasione migliore per avvicinare ancora di più la figura di Renzi a quella di Berlusconi?
Dando uno sguardo più ampio, però, la candidature di cinque donne come capolista non ha riscosso molto successo neanche altrove proprio per lo stesso motivo.

Il rischio è che la donna si ritrovi a coprire una carica non più perché competente ed adatta alla situazione, ma solo in quanto persona di sesso femminile. Neanche a farlo apposta, la polemica arriva dopo importanti votazioni in Parlamento sulle quote rosa: quella del 10 marzo, in cui sono state bocciate dalla Camera all’interno del progetto di legge dell’Italicum, e quella del 20, in cui invece sono state promosse all’interno della riforma della legge elettorale per quanto riguarda il voto a livello europeo. L’emendamento in questione prevede che “all’atto della presentazione, in ciascuna lista i candidati dello stesso sesso non possono eccedere la metà, con arrotondamento all’unità. Nell’ordine di lista, i primi due candidati devono essere di sesso diverso”.

In realtà, un Paese dove la percentuale di donne sedute alla Camera è del 31% (più di Stati Uniti e Regno Unito, ma ancora meno della Germania) per ora sembra ovviare al problema in maniera puramente quantitativa. E dire che il percorso della garanzia di pari opportunità risale all’inizio degli anni novanta: con la sentenza n. 422/95 della Corte Costituzionale, infatti, l’intento era quello di lavorare sull’incentivazione delle donne nella politica, piuttosto che sul far tornare i conti “con la forza”. Erano tempi duri: ancora nel 2001, la rappresentatività delle donne in Parlamento non superava il 9,2%.

La soluzione è arrivata con la riforma dell’articolo 51 della Costituzione, nel 2003. Ora infatti sulla nostra Carta Costituzionale si legge chiaramente che “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini“. La differenza, quindi, è che in questo modo viene garantito un punto di partenza uguale e comune per uomini e donne. Che poi vengano eletti o meno, si riduce ad una questione meramente politica.

Meglio non dimenticare però che la questione delle quote rosa nasce come transitoria e, dunque, è destinata a chiudersi. Prima si chiude, meglio è: rappresenta infatti il tentativo di un’intera classe politica di scollarsi la tradizionale concezione di politica come “affare di uomini” – quando non è più così da decenni. La partecipazione delle donne in politica ha solo avuto bisogno di una spinta. Si presume dunque che, a parità di garanzie raggiunta, si cessi di essere uomo o donna e si venga riconosciuti solo come politici, abili o incapaci che siano: aggettivi che, guarda caso, si adattano indifferentemente tanto al femminile quanto al maschile.