Uno dei problemi della società italiana è rappresentato dalla difficile conciliazione “donne–lavoro“. E’, infatti, acclarato che le donne faticano maggiormente a trovare un’occupazione rispetto ai maschi e, anche quando riescono nell’intento, diventa un problema mantenere il posto di lavoro quando diventano mamme.
Se passiamo poi a considerare la condizione lavorativa delle mamme, la situazione risulta, infatti, particolarmente critica con innumerevoli casi di donne che rinunciano al lavoro per la maternità, come di donne che rinunciano alla maternità per il lavoro. Da dove la si guardi la posizione in Italia delle donne “in età fertile” è sempre più difficile. Tasso di natalità tra i più bassi del mondo occidentale, tasso di occupazione femminile ugualmente fra i più bassi e che continua a scendere come confermano gli ultimi dati dell’Istat ( 46,4%).
Proprio dall’Istat, che nel 2012 ha pubblicato gli ultimi dati, ci viene il un quadro completo del fenomeno maternità e lavoro. Nel 2010 erano occupate il 64,7% delle donne in attesa di un figlio, diventando il 53,6% due anni dopo la nascita del bambino. Quelle licenziate erano il 23,8%, quelle il cui contratto non è stato rinnovato o l’azienda aveva chiuso sono il 15,6%, quelle che dichiaravano di essersi licenziate sono il 56,1%. Il dato che preoccupa è che in dieci anni, dal 2002 al 2012 le donne che hanno perso il lavoro sono aumentate del 40%. Nel 2012 quasi una madre su quattro a distanza di due anni dalla nascita del figlio non ha più un lavoro, un dato stabile nel tempo.
«E’ un dato pesante, strutturale che si trascina negli anni, si evidenzia che c’è un problema serio nel rapporto maternità-lavoro -commenta Linda Laura Sabbadini direttrice dipartimento Statistiche sociali dell’Istat – . È un problema che si ritrova anche in altri Paesi europei, il tasso di occupazione cala da donne senza figli a donne con figli, ma non nella dimensione che assume in Italia. Questo è dovuto al combinarsi di una serie di motivazioni, quella fondamentale è la conciliazione dei tempi di vita delle persone, ovvero l’organizzazione dei tempi per sé stessi, la famiglia, il lavoro. Siamo una società rigida, e la conciliazione non è mai stata perseguita con forza mentre nei paesi nordici l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro fin dagli anni 50 ha visto un impegno forte nelle politiche sociali e dei servizi. Noi abbiamo avuto la legge sui congedi parentali e sui servizi innovativi dell’infanzia solo nel 2000, un momento particolarmente effervescente che non ha avuto un’adeguata continuità».
A frenare l’occupazione femminile e anche la natalità per Sabbadini è anche «una rigidità di ruoli all’interno della coppia rispetto ad altri paesi, il sovraccarico dei compiti domestici.. La rigidità c’è nella famiglia e nell’organizzazione del lavoro a parte nel settore della pubblica amministrazione».
Quante donne invece compiono la difficile scelta di rinunciare alla maternità per non perdere il lavoro? «Sappiano che il numero ideale di figli è lontano da quello reale, sia uomini che donne desiderano 2 figli, mentre il tasso di fecondità è di 1,3 figli per donna. In questi anni di crisi la fecondità si sta abbassando tra le italiane e le straniere che l’hanno tenuta alta, anche loro cominciano ad avere problemi di conciliazione non indifferenti perché manca una rete di supporto famigliare».
In questa situazione sconfortante, un dato forse positivo si riesce a trovarlo fra le laureate che riescono a mantenere il lavoro e lo lasciano o perdono ’solo’ nel 12,2% dei casi. « Ci dice che il maggior investimento in cultura e informazione le protegge di più, sono inserite in mansioni in cui sono meno ricattabili o sottoposte, in famiglie di status sociale più elevato in cui ci si può permettere il pagamento anche di servizi privati o sono in posizioni che permettono una maggior conciliazione di tempi di vita come è per le insegnanti o nella Pa. Inoltre, le laureate hanno il vantaggio che hanno una divisione dei ruoli nella coppia migliore delle operaie o delle lavoratrici in proprio». Però la «strozzatura c’è – conclude Sabbadini – c’è un clima sociale assolutamente sfavorevole alla maternità e alla paternità, niente va incontro alle esigenze di chi vuole avere figli. Non c’è una causa, ma un complesso di fattori che scoraggiano».
La situazione europea…
Anche a livello europeo purtroppo non va meglio. L’anno europeo della conciliazione (lavoro–famiglia) è infatti scomparso come d’incanto. Doveva essere il 2014 ma poi la Commissione Ue ha fatto retromarcia. Il problema è che conciliare costa. Quando per molti (troppi) il problema diventa avercelo il posto di lavoro, la conciliazione rischia di diventare fuori moda .
E invece no, se ci pensiamo bene non è così. È proprio con la crisi che tenere insieme famiglia e lavoro diventa più arduo perché quest’ultimo è più flessibile. Spesso prosegue anche nelle serate e nei fine settimana. Sono necessari, quindi, asili nido, tanto per cominciare ma anche maggiori detrazioni per colf e baby sitter. E così, forse, le coppie troverebbero il coraggio per fare qualche figlio in più.
… e quella di casa nostra
L’Italia resta in fondo alla classifica europea per quanto riguarda la spesa per la famiglia. «Le migliori posizioni delle donne in politica o ai vertici delle aziende non devono ingannare — fa notare Loredana Taddei, responsabile politiche di genere della Cgil —. È come se si fosse creato un doppio binario. Da una parte quelle che hanno sfondato il soffitto di cristallo. Dall’altra la maggioranza delle donne, alle prese con un equilibrio famiglia-lavoro sempre più complesso».
Nonostante le tante difficoltà, però, qualcosa si muove. Il welfare che non ti aspetti è quello che le aziende si inventano giorno dopo giorno insieme con i dipendenti. E poi c’è il non profit che contribuisce ad arricchire il ventaglio delle soluzioni. Infine la tecnologia crea nuove opportunità. Come la maggiore facilità a lavorare da casa quando utile.
Se il Fisco non aiuta
Per la prima volta in Italia è diminuito il numero di collaboratrici domestiche. Pessimo segno per chi deve «conciliare». Il fisco, poi, non aiuta. Le deduzioni sui contributi pagati per colf, baby sitter e badanti premiano chi guadagna di più. «Mettiamo che in un anno siano stati spesi mille euro in contributi per la colf. Se la famiglia ha un reddito basso a cui viene applicata un’aliquota del 23% allora risparmia 230 euro. I redditi più alti, con aliquote del 43%, risparmiano 430 euro», spiega Vincenzo Vita, responsabile dei Caf Cisl della Lombardia.
Da notare: in Italia il tasso di occupazione femminile è così basso (46,3% a maggio) perché a non lavorare sono proprio le donne con redditi base. E allora sorge un dubbio: le deduzioni per colf e baby sitter non andrebbero forse aumentate proprio a vantaggio di questa fascia di popolazione?
Per fortuna, Si scorge un nuovo modello all’orizzonte. È quello del nido non profit. Una recentissima indagine condotta dall’Istituto degli innocenti ha confrontato un campione di nidi pubblici con uno di nidi promossi dalla fondazione Aiutare i bambini. Il risultato è che la qualità, in questi ultimi, non lascia a desiderare, anzi. Per di più esiste una flessibilità oraria maggiore. E le rette sono più basse: 441 euro in media nei nidi non profit contro i 488 di quelli pubblici.
Il terzo settore, però, non vuole essere preso per la fatina che (gratis) risolve tutti i problemi.” Indubbiamente dalle cooperative sociali alle associazioni il nostro settore può mettere in campo un effetto volano sulla raccolta fondi e un certo contenimento dei costi — fa presente Pietro Barbieri, portavoce del Forum del terzo settore —. Non dimentichiamo che il contratto nazionale della cooperazione sociale è già tra i meno convenienti. Il lavoro sociale va riconosciuto. Non vogliamo diventare la stampella di nessuno» .
Mettersi d’accordo sui tempi
L’arma sempre meno segreta della conciliazione? È il welfare aziendale. Solo in Lombardia la Cisl ha contato nel 2013 oltre 60 intese aziendali che hanno lo scopo di mettere d’accordo famiglia e lavoro. Secondo un’indagine del laboratorio di ricerca Secondo Welfare, il 95% delle imprese è interessato a mettere in atto politiche di conciliazione. Il motivo? «Il dipendente che lavora bene è anche più produttivo. E non si sprecano risorse preziose», valuta Cetti Galante, che come amministratore delegato di Intoo (Gi Group) propone alle aziende pacchetti di misure per incentivare i dipendenti a non mollare davanti alla sfida del doppio impegno tra casa e ufficio.
«Il welfare aziendale è uno strumento che va oltre la pura retribuzione e l’incentivo economico. Non solo soldi ma servizi. Questo migliora la cultura organizzativa e rende l’ambiente di lavoro più sostenibile», aggiunge Anna Zattoni, direttore generale di Valore D. Riguardo i contenuti degli accordi, la nuova frontiera è il lavoro agile, cioè la possibilità di scegliere in autonomia se lavorare da casa o dall’ufficio. Le aziende che stanno scegliendo questa strada sono sempre di più: Vodafone, Abb, Sanofi, Osram per fare solo qualche esempio. C’è , però, anche un altro aspetto della questione. Oltre il 90% delle imprese italiane ha meno di 15 dipendenti. Quindi, in prospettiva, la vera sfida sarà la messa in rete delle piccole imprese dei vari territori. Per metterle in condizione di proporre ai dipendenti veri e propri pacchetti di servizi.