Il doping nello sport è un problema, un tema combattuto e oggetto di studi e dibattiti da oltre trentanni. Si può dire che nello sport, se c’è un problema, uno vero (altro che perdere uno scudetto) è proprio l’uso di sostanze vietate. Questo perché, tutto ciò che accade sul campo, in fin dei conti, dovrebbe essere a qualsiasi livello puro diletto. Una di quelle cose che, una volta finite, le possiamo lasciar lì e riprendere nella domenica successiva, come se niente fosse. Dico dovrebbe perché tutti sappiamo quanto poi, nella realtà dei fatti, in troppi e fin troppo si esaspera nella visceralità del proprio essere sportivo.
Ultimo in ordine di tempo in Italia, il caso di positività di un podista perugino, praticante della speciale gara di resistenza degli uomini d’acciaio, 2km di nuoto, 90 in bici e una mezza maratona. Questi tipi di bari, sono protagonisti del ‘doping nascosto‘, quello che spunta dalle sacche sportive degli amatori, e magari anche di ragazzini, che dovrebbero praticare un’attività sportiva a scopo ludico e per il proprio benessere. Al contrario, in una società che richiede a gran voce la performatività, il raggiungimento di risultati al di sopra delle possibilità dei singoli, anche i non-professionisti fanno uso di sostanze illecite.
Adesso, dopo la Procura antidoping del Coni, si muovono i carabinieri del Nas. Nel massimo riserbo, ma è quasi un atto dovuto che gli uomini guidati dal capitano Marco Vetrulli una volta informati del blitz e dell’attività della Procura antidoping, si muovano per valutare l’aspetto penale della vicenda. Per capire, soprattutto, come le sostanze dopanti trovate dai segugi del Coni, siano finite nella mani del runner perugino. Un po’ come è successo per l’inchiesta che ha coinvolto il marciatore azzurro Alex Schwazer dopo il controllo per le olimpiadi di Londra dove l’oro di Pechino è stato trovato positivo. Nel caso umbro la positività del runner perugino è stata scovata prima di una mezza maratona a Corciano e ha già portato all’indagine sportiva del tesserato della Fidal.
In particolare nel primo campione analizzato, gli esami nei laboratori di Roma hanno rilevato la presenza della nesp (Darbepoetina alfa), betametasone, anastrozolo, testosterone e i suoi metaboliti di origine non endogena. Praticamente in quella provetta i laboratori dell’antidoping hanno trovato quella che viene chiamata la super-epo. Tra l’altro i prodotti che contengono la nesp hanno il potere di alzare l’ematocrito.
Il blitz della Procura antidoping che ha portato alla positività del runner perugino, dimostra come anche tra gli amatori il fenomeno abbia punte pericolose. Amatori che assumono sostanze per partecipare a gare dilettantistiche e magari per avere una prestazione migliore di quella dei compagni di club con cui escono la domenica.
Il doping non ti aspetta alla domenica successiva. Non ti lascia e diventa parte vincolante della tua esistenza superando i confini del “semplice divertimento” e andando a modificare radicalmente le vite delle persone. Il corpo si modifica e il motore una volta modificato nel suo assetto, non torna come era in origine. Lance Armstrong e i suoi sette Tour de France vinti da cannibale, si sono sgretolati sotto i colpi di un effetto-boomerang nei confronti del cyborg texano.
La verità è che quando si presentano casi di doping di alto livello, un brivido freddo percorre la schiena di chi in questo settore cerca di fare un po’ di cultura. Questo per un semplice motivo; facciamo un esempio fuori contesto: un noto calciatore (il più noto) sta promuovendo un’applicazione “social” per smartphone. Il risultato è che nell’arco di un giorno (probabilmente), quest’app è diventata la più scaricata del mondo. E’ bastato scegliere la persona in grado di muovere intere flotte di adolescenti.
Tornando al discorso sul doping, possiamo ricavarne che il potere di un testimonial dello sport vale più di mille incontri di sensibilizzazione atti a prevenire comportamenti sbagliati. Ma ciò è altrettanto valido anche nel caso opposto, cioè quando è proprio l’atleta professionista a compiere degli errori, che si rifletteranno su quel “flusso culturale collettivo” che caratterizza i più giovani: “hanno beccato tizio! Si dopa da una vita!” “Beh, sai che scoperta! Come fanno quelli lì a fare quella roba là senza prendere nulla?! Maddai!”.
E così si insinua l’idea (sbagliatissima), che se lo fa lui allora è una cosa che in fin dei conti si può fare, che non succede nulla, che sia normale.
Idiozia. Quando si prendono delle sostanze illecite i conti si fanno sempre, prima o poi. I trionfi della Spagna nell’ultimo decennio, in tutti gli sport (basket,calcio,ciclismo,atletica,tennis) hanno destato perplessità nel panorama mondiale. Spagna che per la lotta al doping, fa molto poco. La morte è l’esito peggiore in molti atleti che ricorrono (conclamati e confessati) al doping: la vicenda di Antonio Puerta, giocatore del Siviglia, deceduto per un infarto nel 2007, ha fatto da battistrada ad altri casi di calciatori e atleti, colpiti da malori e malattie in attività o anche dopo la loro sospensione. Purtroppo l’idea aspirazionale di una vita migliore, di poter diventare degli idoli di altri ragazzi, di avercela fatta è più appetibile della dura realtà fatta di conseguenze negative sul proprio corpo, sulla propria mente e sulle proprie relazioni.
Una cosa che tutti ignorano è che, in fin dei conti, se il proprio desiderio è quello di riuscire a “sfondare” nel mondo dello sport, per farlo le assolute discriminanti sono solo le capacità tecniche dell’atleta e la sua costanza nell’allenamento. Il doping di per sé non può sostituire in quelle fasi la “sostanza vera”, quella fatta di carne ed ossa, pertanto a conti fatti esso risulta pressochè inutile nella “scalata” al vertice dello sport.
Più verosimilmente il doping si può situare là dove il risultato sportivo diventa l’ultimo (e unico) obiettivo primario, quindi ben oltre l’iniziale desiderio di essere riconosciuto come atleta bravo, sia socialmente che economicamente, se vogliamo dirla tutta. Ma a quel punto se l’atleta non è riuscito a comprendere che l’essere là nell’elite è stato frutto di impegno e fatica “positiva” e che così deve essere per rimanerci il più a lungo possible, allora il problema è nella carenza delle sue “sostanze psicologiche” che non sono state sviluppate correttamente nel tempo, piuttosto che dalla mancanza di un “aiutino” chimico.
Dal 2007 è nato il ‘passaporto biologico‘, da un accordo tra l’autorità mondiale antidoping (WADA) e l’Unione Ciclistica Internazionale (UCI): è una sorta di patente dell’atleta che registra i suoi parametri ematici, il livello dell’emoglobina trasportatrice di ossigeno e dei reticolociti, i globuli rossi giovani.
L’antidoping rincorre il doping: ma la forbice si è assottigliata. Lo sa bene la comunità atletica giamaicana che dopo le positività di Veronica Campbell Brown e Asafa Powell, deve fare i conti anche con la quattrocentista Dominique Blake positiva durante i trials olimpici del 2012 alla methylhexanamina, uno stimolante.
Tempi duri per il paese più veloce del Mondo. E’ la cultura dello sport che va cambiata, con una sterzata decisa e decisiva che dovrebbe partire dalla nuova generazione di atleti.
De Coubertin diceva: “Per ogni individuo, lo sport è una possibile fonte di miglioramento interiore”. Migliorare si può. Siamo ancora in tempo.