Gli Europei hanno un fascino particolare, tutto loro: raccontano un continente, il nostro, in costante evoluzione. Un aggregato di nazioni che con il passare degli anni si unisce e si frammenta, che crea nuove culture e avanguardie calcistiche, distinguendosi per esempio dal Sudamerica, dove i brasiliani, gli argentini e gli uruguagi restano sempre uguali a se stessi, con il futbol bailado, il tango, la garra. Qui da noi no. Ne è un esempio lampante la Germania campione del mondo, che è stata la stessa dal 1974 al 2002 e poi ha attraversato un cambiamento radicale che l’ha portata a diventare la splendida nazionale, anzi multinazionale, di oggi. Processo che l’Italia ha solamente accennato e che ancora ci trascina nel baratro di un’inutile e soprattutto anacronistica, polemica sul ruolo degli oriundi. Anacronistica perché già affrontata e brillantemente superata a fine anni ’80 dalla Francia, a metà anni 2000 dalla Germania stessa e recentemente dal sorprendente Belgio che, con quel potenziale (Lukaku, Hazard, Najggolan e gli altri) ha l’obbligo di vincere qualcosa di veramente importante nei prossimi 10 anni.

Vanno diversamente le cose ad Est, dove le forze non si sono unite, ma divise. Il campionato Europeo voleva dire Unione Sovietica, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia. Il resto era contorno. La Repubblica Ceca, nel 1996, è stata una delle prime nuove nazionali a stupire, arrivando in finale grazie a Poborsky e Berger. Allora nessuno pensava che la Slovacchia, in pochi anni, avrebbe messo su un movimento calcistico capace di insidiare le principali forze continentali. Allo stesso modo tutti credevano che con la disgregazione dalle Jugoslavia sarebbe stata la Grande Madre Serbia a prendere lo scettro balcanico, e invece, in tutti questi anni, è stata proprio lei, la Serbia, la grande delusione d’Europa, sprecando più di una generazione di talenti, ottenendo risultati meno brillanti di quelli, tanti per citare dei vicini di casa, di Croazia, Slovenia, Montenegro e della stessa Albania che tra qualche mese potrebbe prendersi la grande soddisfazione di eliminare gli odiati (togliete pure la dicitura “calcisticamente parlando”) rivali e approdare tra le big d’Europa.

Fonte:  fanpage.it
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Il declino serbo si può spiegare soltanto in due maniere: da un lato la mancanza di un progetto vero (a Belgrado cambiano un allenatore ogni 6 mesi, sono riusciti anche a fare fuori Sinisa Mihajilovic), dall’altro una mancata unione di intenti figlia della madre patria Jugoslavia che per decenni ha potuto contare su veri e propri dream team e mai è riuscita a mettere a frutto tanto talento. Tra le squadre balcaniche la Serbia è quella che più di tutte, per ovvi motivi genetici e culturali, ha ereditato il dna, non solo in termini di talento ma anche di ignavia, della ex Jugoslavia lasciando ad esempio alla Croazia la possibilità di ripartire da una propria identità culturale e calcistica. In attesa di rinverdire i fasti dell’Ungheria, sta facendo faville la Polonia, prima e imbattuta in un girone tutt’altro che agevole. Questa generazione, capitanata dal granata Kamil Glik, è più forte di quella dell’82 che arrivò (molto fortunosamente) alla semifinale dei mondiali. Ha una batteria di esterni di livello mondiale, la migliore difesa e il miglior attacco del girone. Un portiere di livello internazionale (Fabiansky) e la consapevolezza di chi sa di potersi giocare una chances importante.

Così come la Romania, che ha attraversato un periodo molto buio dopo l’exploit del 1994. I figli della rivoluzione (Hagi, Lacatus, Lupu, Raducioiu) hanno atteso diversi anni per trovare degli eredi, che adesso sono lì a condurre il gruppo F. Non il più impegnativo in assoluto, ma comunque un girone da prendere con le pinze, che vedeva tra i favoriti la deludentissima Grecia. Quando parliamo di nuova europa parliamo certamente di Austria. Assieme al Belgio la nazionale che un tempo fu di Toni Polster ed Herbert Prohaska è tra quelle accreditate a lasciare un impronta importante sul futuro del Vecchio (Nuovo) Continente. Dimenticate gli austriaci mitteleuropei, questa è la nazionale di Alaba, Arnautovic e Janko. È una squadra che si avvicina molto al modello tedesco per il livello di integrazione e di contaminazione calcistica di diversi stili. In mezzo ci sono color che stan sospesi. Tra la varietà culturale tedesca e la autarchia (quasi un’autodifesa) balcanica. Quella di chi deve lottare per non vedersi sottrarre i propri talenti da nazionali come la Svizzera, la Svezia, lo stesso Belgio. Ed ecco che chi sceglie la Polonia, l’Albania, la Romania lo fa con una convinzione che lo porta a dare più del 100%, in campo.

È la differenza tra “oriundi” e italiani. Tra Diego Costa che sceglie la Spagna perché il Brasile non lo convoca e Boateng che sceglie la Germania, e basta. Senza se e senza ma. È il confine tra la Francia del 1994 (non qualificata ai Mondiali nonostante la classe di Ginola e Cantona) e quella del 1998, forse meno francese ma certamente più identitaria, più portatrice sana dei valori di un paese. E l’Europeo che cambia in un continente mai uguale a se stesso, dove una multinazionale che vende bibite energetiche (La Red Bull) sceglie il cuore pulsante della vecchia Germania Est, Lipsia, per costruire una nuova squadra che unisca la fame di calcio dell’est e il modello di profitto dell’ovest. Ma questa è un’altra storia. Quella di un Vecchio continente che diventa Nuovo, attraversando la storia con un pallone tra le braccia.

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