In un decennio, dal 2004 al 2013, le maggiori economie continentali hanno incrementato il loro impegno nella formazione permanente (“lifelong training”). L’Italia, invece, oltre alla crescita della disoccupazione, si trova a fare i conti anche con i mancati investimenti in apprendimento e corsi di aggiornamento per ciascun individuo.

L’Aldai (Associazione Lombarda Dirigenti Aziende Industriali, aderente a Federmanager) non esita a definirla una vera e propria “emergenza formazione”. Fra le maggiori economie europee, infatti, l’Italia ha il record negativo di adulti (occupati o disoccupati tra i 25 e i 64 anni) che frequentano corsi di aggiornamento: solo 62 su 1.000, contro i 177 della Francia, i 161 della Gran Bretagna, i 111 della Spagna e i 78 della Germania. Nell’Unione Europea in media sono 105, con punte di eccellenza toccate da Danimarca (314) e Svezia (281).

Secondo la ricerca Aldai, basata su dati Eurostat e Isfol, il Belpaese evidenzia tutta una serie di paradossi. Il primo è da leggersi nel lieve peggioramento rispetto ai dati del 2004 (63 contro gli attuali 62 su 1000). Un decennio in cui nessuno, o quasi, ha capito che in un momento di profonda trasformazione dei modelli economici e di business, l’unica via da perseguire per la crescita delle aziende fosse investire in manager e dipendenti professionali, aggiornati e motivati. Altra anomalia significativa è da riscontrarsi in chi accede ad attività di aggiornamento. Dati alla mano, la formazione favorisce chi è già più istruito: i laureati che partecipano a tali attività sono il 16,1%, contro il 6,1% di coloro che dispongono di un diploma di istruzione secondaria e l’1,6% dei lavoratori con diploma di media inferiore. In Italia, inoltre, quasi un terzo delle richieste di formazione fatte dai dipendenti non viene accolto: nelle grandi imprese i corsi sono frequentati dal 50% dei lavoratori, in quelle piccole e medie interessano solo un quinto del personale.

Formazione permanente: Italia ultima tra le grandi d'Europa

Da un’analisi approfondita di questi dati, balza subito agli occhi la scarsa attenzione alla domanda di formazione espressa dalle persone e dalle imprese. Questa dovrebbe, invece, rappresentare il punto essenziale di riferimento verso cui indirizzare un nuovo sistema formativo e verso cui costruire un vero modello di apprendimento lungo l’intero ciclo di vita. Le imprese, piccole, medie e grandi, si pongono come il “luogo formativo” per eccellenza, un contesto privilegiato di sviluppo delle professionalità, ma anche luogo naturale dell’apprendimento di un patrimonio di saperi taciti ed espliciti, tecnici e relazionali che ne qualificano in senso stretto il valore produttivo e, al contempo, il potenziale educativo e culturale per le persone che vi operano.

Una delle chiavi per realizzare il diritto al training continuo è sicuramente da ricercarsi nell’integrazione tra formazione e lavoro. Certo è che tale prospettiva dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita andrebbe ripensata già a partire dal periodo di scolarizzazione di ciascun individuo: costruire, già dalla scuola dell’obbligo, carriere educative, formative e professionali che combinino formazione e lavoro, superando la logica dei due tempi (prima lo studio, poi il lavoro). Esemplari e significative, in tale contesto, sarebbero le esperienze di alternanza scuola-lavoro: laboratori, stage, tirocini, praticantati, borse lavoro, borse di studio estive, apprendistato in tutte le sue forme. Superare, quindi, la dicotomia che contrappone, anziché integrare, i percorsi scolastico-universitari a quelli della formazione sul lavoro.
L’abbandono del paradigma della separazione tra teoria, tecnica e prassi richiede, inoltre, di trasformare anche il modo di fare impresa: da sede in cui si combinano e remunerano i fattori della produzione, lavoro compreso, a sistema organizzato di produzione, gestione e condivisione di un patrimonio di saperi esperti che qualifica in senso stretto il valore del lavoro delle persone e della produzione della impresa e, al contempo, pone le condizioni per l’effettiva crescita di tutti i soggetti che vi gravitano come lavoratori, e prima ancora come persone, con le loro ambizioni professionali e di vita.

Un tale sistema di integrazione porterebbe a un doppio vantaggio: non solo riconoscere il valore aggiunto di un sapere operativo e applicato al caso concreto, ma individuare all’interno dell’attività lavorativa un’occasione unica per apprendere competenze trasversali, individuali, sociali e professionali, sin dai percorsi previsti per l’esercizio del diritto dovere di istruzione e formazione. Tali competenze, note anche come soft skill, sono considerate tra le più rilevanti in vista dei futuri mercati del lavoro, poiché utili a coprire le figure professionali nella società della conoscenza: qualità e innovazione sono le parole chiave verso cui puntano le economie sviluppate, e predominanti saranno le richieste di competenze forti, ampie e specifiche al tempo stesso.

Investire sulla formazione e pensare ad essa in riferimento ai due valori costituzionali (la persona e il lavoro) significa, quindi, realizzare una offerta formativa finalizzata alla occupabilità dei singoli, cioè permettendo al cittadino di contare su un bagaglio di competenze con cui accedere nel mercato del lavoro e restarvi, adattandosi ai continui e rapidi cambiamenti, sulla base di rinnovate conoscenza, abilità, competenze che portano a una maturazione sempre più articolata e profonda sì del lavoratore ma anche della personalità di ciascuno. Una crescita del professionista ma soprattutto dell’uomo.

[Cover source: ownersuniversityreview.com]