Una dolce serata di fine aprile: un autobus, un cellulare e un paio di cuffie. Francesco Repice sta raccontando, con il suo ritmo pazzesco e la verve di chi è ad un passo da un’impresa mostruosa, la semifinale di ritorno di Champions League tra Barcellona e Inter. Ascoltando quel fiume di parole, è nata la mia passione per il giornalismo e il desiderio di approdare agli stessi livelli del radiocronista di Radio Uno.

Ai microfoni de Il Giornale Digitale, Francesco Repice ha rilasciato un’intervista esclusiva riguardante vari argomenti: dal giornalista al campo, passando per l’avventura dell’Italia in Brasile e l’investitura di Antonio Conte come commissario tecnico della Nazionale.

Francesco, come è nato il connubio tra calcio e giornalismo e perchè ti sei appassionato proprio alla radio?

Chi racconta calcio solitamente è un calciatore frustrato. E io lo sono. Sono giunto fino a un certo miserissimo livello ma poi non avevo le qualità per proseguire. Scrivere mi è sempre piaciuto e ho cominciato a parlare di calcio, a raccontare le prime partite dalla finestra di una signora che abitava a Rende, di fronte allo stadio.

Come si è evoluta la radio negli ultimi quindici anni, dove la coomunicazione è radicalmente cambiata? E quali sono gli scenari futuri di questo mezzo?

Secondo me, a differenza della funzionalità di televisioni e giornali che possono essere sconfessati più facilmente dai mezzi tecnologici, la radio se rimane quella che è, non perirà mai. Anzi, le nuove tecnologie non possono che esaltare le virtù della radio. La radio è un oggetto immortale anche fisicamente. Può variare nelle forme ma non morirà mai.

Passando al campo, la Roma ha colmato il gap con la Juventus rispetto l’anno passato?

Io credo che il gap non ci sia e non ci sia stato neanche l’anno scorso. La differenza credo che sia stata mentale e non tanto tecnica. Una squadra che fa ottantacinque punti e non vince lo scudetto è perché ha trovato davanti una compagine mostruosamente concentrata sul pezzo. Dal punto di vista tecnico ci sono squadre che si possono avvicinare ai livelli di Juventus e Roma ma non hanno quella concentrazione feroce per arrivare al traguardo.

Sei stato in Brasile come inviato per raccontare le partite degli azzurri agli ultimi Mondiali. Innanzitutto com’è davvero il Brasile e cosa è stato sbagliato nell’avventura dell’Italia? Ti aspettavi qualcosa in più da qualche giocatore, anche dal punto di vista umano?

Paese meraviglioso e ricco di contraddizioni. È difficile da capire in un mese e mezzo, è chiaro che il dislivello tra persone abbienti e coloro che non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena c’è ed è anche evidente. Un esempio è Rio de Janeiro: tutti parlano delle bellezze di questa città quando invece bella non lo è affatto. C’è un lungomare meraviglioso ma quello che c’è dietro non è allo stesso livello. Per quanto riguarda la Nazionale, nell’ultimo anno sono state sbagliate tante cose. Credo che gli errori siano stati quelli di portare le famiglie in Brasile, scegliere il ritiro a Mangaratiba, e nella scelta dei giocatori. Dal punto di vista umano non mi aspetto niente da nessuno. Nutro però molto rispetto per Buffon per come ha sempre affrontato anche le sue cose intime con coraggio. Non ho mai visto nessun calciatore affrontare le sue cose private mettendoci sempre la faccia. Come detto, dal punto umano non mi aspetto niente da nessuno. Io sono contro chi dice che i giocatori debbano essere da esempio e non capisco perché i bambini dovrebbero prendere esempio dai calciatori. Accendono la tv e guardano attori, politici, tante altre persone. Non vedo perché solo i giocatori dovrebbero essere presi come esempio.

La rinascita degli azzurri passa sicuramente da Antonio Conte: che impressione ti ha fatto e come attuerà la sua rivoluzione?

A Coverciano ci ha tenuto una lezione tattica. Non intende mai mettere pressione su un solo uomo. Se posso dire una cosa, anche se ai tifosi della Juventus potrebbe sembrare una specie di bestemmia, è molto vicino alle idee di Sacchi e Zeman. Bada più allo spartito che ai suonatori. Da un punto di vista psicologico lui rappresenta una grande spinta, una deflagrazione nella testa dei giocatori. Ma la sua rivoluzione parte anche dal punto di vista tecnico: le convocazioni mi sono sembrate azzeccate con giocatori adatti al suo gioco. Zaza ad esempio è uno tosto, come piace a lui.

Come ti spieghi la mancanza di ex giocatori ai vertici del calcio italiano?

I calciatori non riescono a imporsi nel mondo politico. In Italia probabilmente non c’è ancora la mentalità per dare a un ex giocatore la leadership del calcio. Penso a Gianni Rivera: paradossalmente non è entrato in Federazione nonostante abbia fatto politica ad alti livelli, anche dal punto di vista internazionale.

Riguardo al tuo lavoro, ti volevo chiedere: qual è stata la partita perfetta che hai raccontato?

La partita che ho raccontato in una maniera perfetta o quasi, fu un match tra Juventus e Lazio che terminò 2-1 per i biancocelesti con doppietta di Stefano Fiore. Era il mio esordio in un big match, ne uscì una radiocronaca molto fluida. Un’ altra davvero incredibile e da ricordare fu quella che feci in Spagna quando l’Inter espugnò il campo del Valencia. La raccontai in apnea, i nerazzurri terminarono la partita con Farinos in porta e con gli avversari che cercavano di pareggiare. Un’altra esperienza forte che però ho fatto da bordocampista è stato il gol di Montella a Torino contro la Juventus a tempo scaduto, che fu decisivo ai fini dell’assegnazione dello scudetto.

Qual è invece il match che vorresti raccontare nuovamente? E quello che vorresti dimenticare?

Mi piacerebbe raccontare nuovamente la finale di Champions League tra Barcellona e Manchester United del maggio 2011. Successero cose incredibili, che non avevo mai visto prima. Il Barcellona giocava meravigliosamente, era troppo bello. La cosa che mi ha impressionato è stata la gestione del gruppo di Guardiola: mise in panchina il capitano Puyol e la fascia la indossò Abidal che aveva avuto seri problemi di salute. Puyol entra in campo e Abidal gli va incontro per riconsegnarli la fascia e lui la rifiuta perché secondo lui era giusto che la tenesse lui. Questo spirito di gruppo non l’ho mai visto. Quella squadra lì credo che sia insuperabile.

Il match che vorrei dimenticare, non l’ho raccontato in prima persona ma purtroppo ero lì perché facevo le interviste post-partita negli spogliatoi: era il 2000 e quella finale dell’Europeo tra Francia e Italia. Penso di non essermi mai arrabbiato così tanto per una partita di calcio. Ancora oggi se ci penso, mi vengono i nervi. Di quella partita ho l’immagine di Alessandro Del Piero che esce dal campo e mi dice: “E’ tutta colpa mia”. Un’esperienza terribile, sebbene la semifinale contro l’Olanda sia stata comunque esaltante.

Puoi dare dei consigli a chi intraprende oggi la strada del giornalismo? In ambito sportivo e non, ci può essere un futuro in ripresa per questa professione?

Sì, secondo me bisogna leggere. Leggere tutto: insegne, scritte sui treni, quotidiani, libri giornali, le avvertenze sugli estintori. Io credo che la lingua siano un patrimonio di tutti noi. Più parole conosciamo, più riusciamo ad abbinarle ai nostri pensieri e ai nostri rapporti. Più riusciamo ad interiorizzarle, più riusciremo a divulgare una notizia, un sentimento, uno stato d’animo. Allora sì, ci può essere un futuro, ma solo salvaguardando un nostro patrimonio, ovvero la lingua, le nostre parole. Più ne conosciamo, meglio è.

Il sogno nel cassetto di Francesco uomo e giornalista?

Dal punto di vista umano, un mio sogno, e tale potrà rimanere, è quello di rivedere mio padre e mia madre. Dal punto di vista professionale, sinceramente non penso di poter pretendere più di quello che ho avuto. Dopotutto, va bene così.