Otto milioni di morti in quattro anni. Il mondo cambiò. Fu questo il biglietto da visita del Novecento e della Prima Guerra Mondiale. La “Grande Guerra“, si disse, ma il mondo dopo l’inutile strage, come venne etichettata da papa Benedetto XV nel 1917, non immaginava che in vent’anni ne sarebbe maturata una più grande, orrenda e totale.
Bombe a mano, mitragliatori, gas, carri armati: un’officina della guerra dove la morte non era più affare da professionisti, ma questione industriale: non si trattava di avanzare, ma di sterminare.

Dicevano i generali: “Non sarà sopravvissuto nemmeno un topo“. La notte del 30 giugno 1916 il capitano Billie Nevill scoprì che mentivano. In ricognizione nella terra di nessuno vide le trincee tedesche intatte dopo una settimana di bombardamenti. Capì che il giorno successivo, il primo della grande offensiva sulla Somme, ai suoi uomini sarebbe servito qualcosa di più del forte rum che trangugiavano da mesi.
Poco prima delle 7.30, mentre migliaia di ragazzi si alzavano tremanti per lanciarsi all’assalto, il capitano Nevill tirò fuori due palloni e ordinò ai suoi di andare a far gol nella trincea tedesca.
Venne l’ora dello ‘scontro’ e Nevill calciò, lanciando i suoi nella carica più surreale di cui si abbia memoria: la ‘Football Charge‘. Il capitano cadde pochi minuti dopo, all’altezza del filo spinato che aveva osservato la notte precedente. Lo stesso da cui a fine giornata – dopo aver contato 20 mila morti solo nelle fila britanniche – fu recuperato uno dei palloni.
Sulla Somme cadde anche Leigh Rose, forse il più grande portiere dell’anteguerra, facente parte dello stesso reggimento di Nevill. Uno spettacolo in campo, incontenibile fuori: donne, alcol, lusso. Il più noto fra le migliaia di calciatori che persero la vita nella Grande Guerra.

Molti sono rimasti ignoti perché, tolta la Gran Bretagna, il calcio era ancora gli albori. In Austria, Francia e Italia i giocatori furono tra i primi a cadere sul campo di battaglia. In Inghilterra no: il professionismo precludeva la possibilità di arruolarsi senza il consenso del club. Si schierò perfino Artur Conan Doyle, il padre di Sherlock Holmes ed ex portiere dilettante:”C’è stato un tempo per tutto, ma ora ce n’è per una cosa soltanto. La guerra. Se un calciatore ha forza nelle gambe, che si arruoli e marci per la patria“.
I primi a rispondere all’appello dello scrittore furono gli scozzesi dell’Heart of Midlothian, che si presentarono in blocco all’ufficio reclute. Piansero sette morti e tornarono a giocare solo in quattro. Andò peggio al Tottenham che perse undici fra giocatori e membri dello staff.

Il campionato 1915-16 non partì, e il governo pensò di sfruttare la popolarità del football creando un battaglione di soli giocatori e tifosi. Accorsero a centinaia: il primo fu Franck Buckley, difensore del Bradford, da allora soprannominato “il maggiore”. A metà anni Trenta, dei 600 uomini del “Football Battalion” erano morti in più di 500.
Chi si salvò, invece, fu il più follemente coraggioso: William Angus, ex Celtic, andò a recuperare un compaesano ferito a pochi passi dalla trincea nemica. Quello chiedeva acqua, i tedeschi gli tirarono una granata. Appena lo seppe, Angus si fece legare una corda intorno ai fianchi e partì. Riuscì nell’impresa, martoriato da 40 ferite. Perse un occhio e un piede.

In Italia il calcio era ancora affare da pionieri. Secondo la Figc furono 258 i giocatori impegnati in battaglia. Cadde Virgilio Fossati, ex capitano e allenatore dell’Inter, a segno nella prima partita degli azzurri, nel 1910 con la Francia. Perse la vita anche Giuseppe Caimi, anche lui interista e che, scherzo del destino, avrebbe dovuto sostituire proprio Fossati alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912. Morì uno dei fondatori della Juventus, Enrico Canfari, sul Monte San Michele. Nel settembre del 1917 giunse l’ora del genoano Giuseppe Castruccio: il dirigibile da cui aveva bombardato Trieste perse rapidamente quota dopo essere stato colpito dal fuoco austriaco. Lui si arrampicò sull’involucro del pallone e col suo peso riequilibrò la picchiata. Venne insignito della medaglia d’oro e 26 anni dopo guadagnò anche il titolo di Giusto fra le Nazioni, quando da console a Salonicco, facilitò la fuga di 113 ebrei.

L’inutile strage cambiò il mondo e col mondo cambiò il pallone. La società di massa che sorse dalle ceneri della Belle Époque trovò nel calcio il suo collante. Un gioco universale, interclassista, lingua franca del Secolo breve. Milioni di pastori, contadini, artigiani ebbero modo di giocare con un pallone per la prima volta nelle caserme.