Era l’8 settembre 1943. Il generale Pietro Badoglio, capo del governo italiano dopo la destituzione di Benito Mussolini, annuncia alla nazione l’armistizio con le potenze anglo-americane, già sbarcate a sud della penisola. L’alleanza con la Germania di Hitler era finita, l’Italia tutta era in festa.
Intanto, però, le armate tedesche sotto la guida del generale Erwin Rommel, stavano occupando tutti i centri nevralgici dell’Italia settentrionale e centrale fino a Roma, con l’obiettivo di annientare definitivamente i reparti militari italiani.
L’eccidio degli ebrei continuava senza sosta.

Tutta questa realtà trova spazio nel libro di Marco Nozza, e poi nell’omonimo film di Carlo Lizzani “Hotel Meina”. Questa storia vera ha come teatro città ridenti del Lago Maggiore: Baveno, Stresa, Arona, e appunto Meina. Luoghi dove, proprio nel settembre del 1943, una colonia di ebrei sfollati dalle città lombarde assiste all’arrivo della Leibstandarte Adolf Hitler, una divisione SS.

È proprio sulle rive di questo lago che la guerra sembra lontana, che la guerra sembra non esistere perché i suoi orrori non sono presenti: nessuna immagine di bombardamenti, nessuna incursione aerea, nessun campo di concentramento. Solo un albergo in cui ebrei ed ariani italiani condividono gli stessi spazi. Un albergo in cui gli uni e gli altri accolgono con lo stesso entusiasmo l’annuncio radiofonico dell’armistizio.

Ma nulla è andato per il verso giusto. In un lungo flashback, Noa – figlia del proprietario dell’hotel, Giorgio Behar, un ebreo con passaporto turco, considerato perciò cittadino di un paese neutrale – ritorna al settembre del 1943 per rivivere il tragico epilogo di quei giorni. Si tratta di un microcosmo in cui si riproduce e si consuma, quasi in forma simbolica, una porzione della guerra mondiale, sia per la tortura psicologica, sia per quanto riguarda eliminazione fisica degli ebrei.

Il grande giornalista italiano Giorgio Bocca scrisse “la storia degli ebrei di Meina è la summa di una persecuzione tanto chiara nei suoi effetti quanto oscura nelle sue origini”.
L’unica è più profonda verità è che l’uomo è se stesso atroce e costante nemico per tutta l’umanità. E questo ne è l’esempio più chiaro che la storia dei secoli potesse offrire.
Cattiveria, crudeltà. Brutalità. Questo è l’uomo nella sua più infima natura di essere umano.

I pochi sopravvissuti a questo orrore, oltre a portarsi una ferita indelebile per tutto il resto della loro esistenza, hanno enormemente faticato a raccontare la loro esperienza e a essere compresi da coloro che non l’avevano vissuta in prima persona, e che quindi non accettavano di capire tanto dolore o semplicemente se ne volevano distaccare per ricominciare a vivere dopo la guerra.
Ma ora, che i sopravvissuti a questo genocidio sono quasi tutti scomparsi, ora più che mai, bisogna raccontare. Ricordare. E far sì che tutto questo non si possa più presentare. Né ora, né mai.

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