“Viviamo nel migliore dei mondi possibili”: la massima di Leibniz, parafrasata dal Pangloss del voltairiano Candido, sembra tornare negli ultimi tempi sulla cresta dell’onda. I mondi perversi del filone distopico hanno acquisito di recente nuova linfa, grazie soprattutto al successo di due trilogie letterarie, Hunger Games e Divergent, entrambe scritte da penne femminili e portate al cinema con risultati apprezzabili e ottimi riscontri in termini di incassi. Le due saghe, concepite rispettivamente da Suzanne Collins e Veronica Roth, costituiscono l’apice di quello che al cinema può essere considerato, almeno in questa prima metà degli anni ’10, il grande ritorno della distopia.
L’immagine del Big Brother è quella che nell’immaginario collettivo esprime con più efficacia il concetto di utopia negativa, la cui rappresentazione si dirama generalmente in due filoni: la distopia totalitaria, in cui uno Stato-Regime, spesso per adempiere ad un bene superiore, assume il controllo assoluto sulla libertà dell’individuo; la distopia post-apocalittica, rivelata per mezzo della raffigurazione di un mondo dove l’ordine lascia il posto al caos. È così che dagli ultimi decenni dell’800 alla prima metà del ‘900 la distopia si sviluppa prima in campo letterario (Verne, London, Orwell, Huxley), poi cinematografico, con la realizzazione nel 1927 di Metropolis, considerata la prima pellicola di genere distopico.
Dopo la prima trasposizione del 1984 di Orwell (Nel 2000 non sorge il sole, 1956) e varie pellicole basate sui lavori di H.G. Wells, arrivano i classici degli anni ’60-’70: Il pianeta delle scimmie, L’uomo che fuggì dal futuro (George Lucas), Fahrenheit 451 di Truffaut e l’Arancia Meccanica di Kubrick. Per giungere dunque ad altre due versioni di 1984, Orwell 1984 di Michael Radford e Brazil di Terry Gilliam. L’esplorazione dei mondi possibili non si ferma nemmeno tra gli anni ’90 e il 2000, coi vari Matrix, Minority Report, The Island e I figli degli uomini a proseguire l’infinito viaggio verso le utopie più interessanti.

La sensazione che però si avverte da pochi anni a questa parte è l’aumento del feedback da parte del pubblico verso un genere considerato nei decenni passati come di nicchia, se non intellettualistico. Come anticipato dai risultati di lavori di qualità sempre piuttosto recenti, come In Time di Andrew Niccol e il sudcoreano Snowpiercer – entrambi dotati di una chiave di lettura neanche tanto velatamente marxista – e come confermato da Hunger Games e Divergent, la distopia è divenuta mainstream, per non dire alla moda, senza alcuna accezione negativa.

Anzi, il pregio più grande delle due trilogie è proprio quello di coinvolgere la fascia di pubblico più giovane, puntando sui volti acerbi e attraenti di Jennifer Lawrence e Shailene Woodley, di Josh Hutcherson e Theo James, senza esimersi dal proporre riflessioni su tematiche sempre attuali.
Questa scelta, quella di mettere l’eroina o l’eroe di turno al centro della scacchiera, in prima linea per un mondo da cambiare, assume i contorni di un atto di fiducia verso la giovinezza. Quella parte della vita tesa, sempre e comunque, verso l’utopia, positiva o negativa che sia.

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