La prossima stagione il Liverpool potrà contare sulla coppia d’attacco del Brasile. Immaginate fosse successo nel 1994: i Reds avrebbero avuto davanti Romario e Bebeto, e avrebbero ambito a vincere una Premier che manca proprio dai primi anni ’90. Fossimo stati nel 1998 Brendan Rodgers avrebbe avuto a disposizione Ronaldo e Denilson, con “o Baixinho” di scorta, e quattro anni dopo Rivaldo al fianco del Fenomeno che trascinò i verdeoro al titolo. Ma a Liverpool sanno benissimo che questa coppia d’attacco attuale non ha nulla a che vedere con questi scomodissimi paragoni, tanto vale evitare di ricordare che nel 1970, ad incutere terrore alle difese avversarie, c’era gente come Pelè e Gerson. Coutinho e Firmino, acquistati, in periodi diversi, ad un prezzo certamente superiore a quello che sarebbe stato quello degli illustri predecessori fin qui citati, forse, nemmeno conoscono la filastrocca che recita: Didi, Vava, Pelè, Garrincha, Zagalo.
Questo Brasile, a detta di Josè Altafini, è “il peggiore di tutta la storia”. Nelle sue parole la rabbia e l’incredulità di chi non si sente minimamente rappresentata da questo movimento poco bailado e che di contro non offre nemmeno quella grinta, che quella dimostrazione di attaccamento alla maglia che ci si aspettava da chi ha meno talento dei propri antenati calcistici. Va detto, ad onor del vero, che il titolare dell’attacco del Brasile sarebbe un certo Neymar, che però non è particolarmente fortunato con la maglia della nazionale. Se al mondiale è stato un infortunio a privarlo della semifinale, questa volta è stata una sciocchezza da ragazzino a togliergli la soddisfazione di una Copa America da protagonista. Per il “fenomeno dell’era Youtube”, e indubbiamente non solo visto quello che il ragazzo del ’92 ha dimostrato con il Barcellona in una stagione che lo ha visto assoluto protagonista, un grande smacco. Ma ai tifosi del Brasile, abituati a ben altre soddisfazioni, tutto questo interessa poco. Dopo lo schiaffo di Belo Horizonte, conosciuto anche come Mineirazo, i 7 gol presi a domicilio dalla Germania, tutti si aspettavano una prova di forza, ma contro il Paraguay il sogno è finito ancora prima di iniziare.
E pazienza se la davanti ci sono Coutinho (sicuri che l’affare non l’abbia fatto l’inter, per una volta?) e Firmino, più il redivivo Robinho, forse il migliore dei suoi. Il Brasile è il Brasile, e non basta l’assenza di Neymar a giustificare l’eliminazione da una Copa America dove davvero si poteva far bene visto il livello delle avversarie. Un Uruguay ormai piuttosto stanco da mille battaglie intercontinentali e per la prima volta con meno garra delle rivali (il Cile, padrone di casa, ha mostrato più grinta e voglia), una Colombia bella e solida ma eterna incompiuta (James Rodriguez è un fenomeno ma il carisma di Valderrama era di altra fattura), Paraguay e Perù che provano a scomodare la storia, i talenti argentini che vanno avanti senza brillare, come se la Copa America non fosse la vetrina ideale per le stelle, più adatte al palcoscenico di un Mondiale, ma per gente come Murillo, Isla e soprattutto Medel, vera icona di questa competizione. Vallo a dire al pubblico di San Siro, che ha sempre apprezzato l’impegno del centrocampista (o centrale difensivo?) cileno ma mai e poi mai avrebbe immaginato di vedergli fare un lancio millimetrico da 70 metri e un gol con tanto di pallonetto qualche minuto più tardi.
È proprio per questo motivo, e per la presenza di Carlos Dunga in panchina, che ci si aspettava un Brasile battagliero, e invece è stato solo un Brasile prudente, difensivo, utilizzando un termine banale, ma che tende molto bene l’idea. Un Brasile snaturato che, una volta in vantaggio, ha smesso di giocare, peccato mortale per la tradizione calcistica verdeoro, e hai voglia a tirare in ballo il Maracanazo e la storia. Quella volta nel 1950 non andò così: il Brasile non continuò ad attaccare perché voleva umiliare l’Uruguay. Non è vero nemmeno, racconta il grande Osvaldo Soriano, che dopo il pareggio tentò di vincere la partita. È vero piuttosto che rimase prigioniero di se stesso e in balia di una partita che non voleva finire, di “un cronometro che non voleva scorrere”. Storia vecchia. Che non riguarda Dunga e la paura dei brasiliani, attanagliati da un senso di reverenzialità eccessiva che non li fa più divertire. E un brasiliano che non si diverte è un sudamericano come tanti, al massimo con una dote di grinta (e fame) in meno.
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