Esistono dei luoghi, delle città, o paesoni se preferite, nei quali il calcio diventa sinonimo di efficienza e organizzazione. Diventa un bell’esempio per tutti gli altri. Anche per i più grandi. Carpi, ad oggi, è un’isola felice come in Italia ne sono rimaste davvero poche. Una di quelle storie calcistiche che sembra ormai destinata ad un lieto fine. Carpi è la bellezza del gioco del calcio. Ed è l’imprevedibilità del gioco più bello del mondo. Quello nel quale in un campionato ci sono squadre che spendono milioni di Euro per costruire un organico all’altezza e che ogni domenica fanno registrare oltre 10.000 spettatori, e squadre che spendono pochissimo, vanno a riesumare un vecchio allenatore che ai più non dice nulla e hanno uno stadio che non può ospitare più di 4 mila persone. Nel gioco più bello del mondo capita, a volte, che vinca Davide. Quello con pochi posti in uno stadio che è un campo sportivo e con un’anima che trascende tutto.
Ma non parlate di favola. Carpi è qualcosa in più e qualcosa in meno allo stesso tempo. Il Carpi è sinonimo di programmazione e grandezza societaria. La grandezza di una piccola società, per dirla in maniera diversa. Nasce tutto in quel Giugno del 2013, quando i biancorossi conquistano una promozione in Serie B che sembrava insperata. La finale play-off era contro quel Lecce che nel girone del Nord era semplicemente stato inserito d’ufficio e veniva dalla Serie A. E soprattutto voleva subito tornare a giocare in altri palcoscenici: come se il Cabassi fosse un palcoscenico minore. Ma al Via del Mare passa il Carpi, con una punizione nel finale. Il Lecce impazzisce, succede di tutto. Il Carpi è il ritratto di una di quelle squadre che con un pizzico di fortuna e tanta organizzazione riesce a vincere una sfida che sembrava impossibile.
Poi c’è tutto il resto. Che sta diventando storia. Una stagione di transizione in Serie B ed una, questa, di dominio assoluto. Il Carpi da piccola squadra di provincia diventa una solida corazzata in grado di vincere un campionato a mani basse. Non lo ha vinto ancora, e un pizzico di scaramanzia non guasterebbe, ma è come se lo avesse già fatto. Perché il Carpi avrà vinto a prescindere. E perché i numeri di questa stagione parlano e disegnano anche il futuro di questo club. Che magari sarà in Serie A. Con buona pace di Lotito, dei suoi interlocutori e di tutti quelli che guardano al calcio come ad un business. E quei 4.000 posti allo stadio in una città di 70.000 abitanti sembrano ostacolare le manie di grandezza di qualche personaggio che ormai da tempo ha dimostrato la propria piccolezza.
Il Carpi invece si scopre grande. Scopre talenti e mostra quella parte del calcio italiano troppe volte dimenticata. L’allenatore del ’54, lontanissimo dal modello Guardiola che la maggiorparte dei club di A sta cercando di proporre in questo periodo, è uno che ha allenato in tutte le categorie dalla Serie B all’Eccellenza, senza mai però arrivare in Serie A. Ha subito la pressione di piazze importanti, tra cui Reggio Calabria e Salerno. E ha ottenuto sette promozioni. A questo ci è anche abituato. Ma Fabrizio Castori non è un nome che andava di moda quest’Estate. E probabilmente non andrà di moda nemmeno l’anno prossimo. Così come non era di moda Kevin Lasagna. L’altra faccia di questo Carpi. E di questo calcio. Quello che viene chiamato KL15 quasi come se fosse uno sfottò. Che ha il nome di un piatto tutto italiano e tre anni fa giocava in Promozione. Dove non esiste Mediaset Premium e spesso non esiste nemmeno il concetto fondamentale di calcio come sport.
Il Carpi è l’anti-favola. Perché è il successo costruito su tanti ragazzi italiani, dal volto pulito e dal nome umile. E sulla capacità di programmare e costruire in un paese che sembra sempre più un deserto. Ed è una sorpresa assoluta. Il bello di questo gioco e di questa Serie B. E qualcuno da quelle parti già sogna la faccia di Lotito il giorno dell’eventuale promozione. E siamo tutti un po’ tifosi del Carpi.