Nel tempo in cui i social si affermano prepotentemente come strumento di condivisione di idee, sembra invece che le idee siano finite. Per non parlare dei modelli manageriali.

Due fenomeni in particolare emergono nell’uso del networking massivo (da facebook a twitter passando per tutto il resto): l’egocentrismo portato all’estremo e la necessità di compiacere, entrambi uniti da una quasi totale carenza di contenuti.

Si condivide ciò che gli altri condividono al fine di essere a propria volta condivisi.

Non si condivide per analogia con il contenuto, quanto per stima, devozione o per mettersi in luce con l’autore (“vedi? Anche io dico che sei bravo!”), nella speranza forse un giorno, che quel personaggio che noi stessi abbiamo contribuito a rendere “più pubblico”, ci restituisca il favore.

Le teorie di social media marketing vengono puntualmente riciclate nel tentativo di vivere un “successo di sponda”, ma sono pochi quelli che le determinano e che le sanno esporre.

Penso ai social-amanuensi che hanno pubblicato para-libri sul Personal Branding dopo Luigi Centenaro senza aggiungere nulla di nuovo (eppure sono passati diversi anni dalla prima edizione..), a coloro che inseguono Luca Conti nelle buone pratiche di utilizzo dei social per il business (i social cambiano in continuazione, ma quei libri sono tutti uguali).

Vorrei poi conoscere il primo blogger che ha capito che il vino e il fashion sono due grandi opportunità per il social marketing e li ha messi insieme, creando un vero e proprio movimento di blogger-follower espertissimi di cibo e moda. (Ho visto circolare presentazioni del tipo “damigiana 2.0” e “social media socks”!)

Nel mondo aziendale, il fenomeno non è meno accentuato. Le teorie sulla leadership si inseguono con una ripetività disarmante, i processi esecutivi nonostante la crisi non cambiano, la selezione del personale continua a tracciare il solco di sempre, salvo poi citare Einstein (“Non pre­ten­diamo che le cose cam­bino se con­ti­nuiamo a fare le stesse cose” etc etc…) o Steve Jobs.

Tendiamo ad attualizzare modelli manageriali che non sono più attuali; persone che operavano in contesti sociali (il dopoguerra, l’austerity…), politici (quando ancora era forte il senso di appartenenza e i Presidenti della repubblica fumavano la pipa), industriali completamente diversi.

Il tentativo mediatico con cui, per esempio, si è cercato di riproporre il modello olivettiano, è insensato. In primis perchè quella fiction girata e prodotta dai familiari di Olivetti edulcora in maniera disarmante la realtà di quel sistema imprenditoriale. Secondariamente, quel modello di cui si estrapola solo l’aspetto legato all’organizzazione delle risorse umane (che Luisa Spagnoli ben prima di Olivetti aveva già adottato all’inizio del 900 conducendo anche le sue belle battaglie di genere, in quanto donna), è sotto gli occhi di tutti che imprenditorialmente smise di funzionare in tempi molto brevi.

Olivetti alla pari di FIAT e tante altre aziende divenne para-statale già a cavallo fra gli anni 60 e 70 funzionando solo grazie agli incentivi statali, alle tavole rotonde politiche (banche e Pubblica Amministrazione erano i grandi clienti di Olivetti inzio anni 80) e non seppe nè produrre prodotti al passo con i tempi (si parla solo della Lettera 32, ma i PC Olivetti e il sistema operativo proprietario furono dei veri e propri disastri), nè dare continuità industriale. Un vero peccato per chi di fatto aveva inventato i computer ben prima degli Americani.

Certi capitoli vanno chiusi. Bisogna fare tesoro del buono che hanno portato, ma poi bisogna progredire. Riproporli tout-court dando loro una bella passata di vernice e presentarli in qualche bel convegnone con qualche ospite illustre, non aiuta a fare cultura (social o manageriale che sia), ma ad arenarla.