Non se ne può più, liberateci dai piagnistei, vi prego. Se la dimensione della nostra serie A è quella della polemica a tutti i costi e della stucchevole sommatoria tra favori e torti arbitrali, allora siamo messi davvero male. Non che sia una novità, ma la diatriba tra Roma e Juventus ha raggiunto il limite della sopportazione prima ancora del giro di boa. Peccato, perché senza questo teatrino sarebbe un campionato niente male con due contendenti brillanti, e più di qualche colpo di scena. Un duello appassionante, sentenzierebbero gli addetti ai lavori. Si dirà che in Italia è sempre stato così. Vero, in parte. Il gol di Turone è ancora un ricordo indelebile per molti romanisti, così come il fallo di Iuliano su Ronaldo giunge spesso e volentieri a rovinare i sogni di Gigi Simoni e degli interisti. Ma fino a quando le polemiche erano limitate ai giornali e alla televisione i tempi di respiro erano molto più frequenti.
Oggi il web ci consegna una polemica quotidiana che finisce per annacquare un campionato che andrebbe invece gustato senza additivi aggiunti: basterebbero Pirlo, Pogba, Nainggolan e Totti a farci divertire. C’è un problema culturale, di fondo. E una speranza (che vedremo in seguito). Il problema è che decenni di Processo di Biscardi ci hanno intorbidito la mente. La colpa, signori e signori, è sempre dell’arbitro. Se manca un punto è colpa di quel rigore, se ne mancano tre di un fuorigioco. È una congiura, ci vuole la moviola in campo. Senza contare che anche con la moviola in campo sarebbe sempre un uomo, alla fine dei conti, a decidere. Prendiamo il caso del rigore assegnato domenica alla Roma. Il Genoa chiede la moviola, l’arbitro la guarda e dice “Confermo, chiara occasione da rete. Rigore e rosso”. Non sarebbe comunque accusato (assurdamente) di protagonismo? Il fatto è che si contestano anche decisioni lapalissiane, e la congiura è bi-direzionale. I romanisti dicono che si fa di tutto per far vincere la Juventus, gli juventini che lo scudetto deve andare a Roma perché così ha deciso il Palazzo. Ma quale Palazzo?
Nel frattempo ci perdiamo lo spettacolo e riusciamo a non far caso ad un particolare evidente: la squadra italiana più stimata nel mondo, con un finale di Champions League e una di Coppa del Mondo negli ultimi due anni, è proprio quella degli arbitri. Quella che dopo lo scandalo del 2006 ha cambiato tutto, mandando a casa anche i presunti colpevoli. Ad accusarla di mediocrità sono bravi presidenti ma uomini mediocri come Preziosi. Il suo Genoa è un gioiello sportivo. Non solo per quello che esprime in campo, ma anche per quel settore giovanile che tanti talenti ha messo in luce negli ultimi anni. Ma non possiamo dimenticare che a parlare di scandali è l’uomo beccato con una valigetta di soldi con i quali il suo Genoa comprò la disponibilità del Venezia a perdere l’ultima partita del campionato per far volare il Grifone in A. Preziosi non può associare l’AS Roma a Mafia Capitale offendendo una città intera. Non è una questione calcistica, la sua dichiarazione è socialmente pericolosa in questo contesto di instabilità economica e, appunto, sociale.
Così come sono pericolose le parole di Taormina all’indomani di quel ormai famoso Juventus – Roma. Il mitra da puntare contro Rocchi è una vergogna di proporzioni epiche. Così come vergognosa è la presa di posizione, da asilo nido, di due direttori di giornale: Paolo De Paola del Corriere dello Sport e Vittorio Oreggia di Tuttosport. Credo che i due si siano dimenticati di essere direttori di due quotidiani nazionali e non dei giornalini della curva sud. Il loro atteggiamento è puerile, e mi spiace che anche una tv come Sky, in Director Box di Fox Sport, si presti a questo conto della serva in cui, per vendere due copie in più, ci si rinfacciano presunti (perché di presunti si tratta) errori arbitrali. “Noi dovremmo avere tre punti in più” dice De Paola”. “Ricordatevi Sassuolo e Genoa” risponde Oreggia. Come se non bastasse i due ci deliziano anche su Twitter, a colpi di refusi. Che giornalismo di bassa lega, dico io. Eccola, la dimensione provinciale del nostro calcio. Quello che in Europa fa figuracce e che si aggrappa ai centimetri di un piede in fuorigioco.
E allora le partite del CUS Avellino diventano più appassionanti di quelle delle Juve e i gol di Titti Dolce più visualizzati di quelli di Totti. Il successo di pagine come “Calciatori Brutti” si spiegano anche così: la gente è stufa di questi teatrini, vuole vedere il calcio vero, un calcio fatto anche di errori arbitrali e di litigi, ma sani. È questa la mia speranza. De Paola e Oreggia, ma anche gli altri direttori, dovrebbero occuparsi di questo dato, anziché fare la conta dei rigori che mancano per vincere il campionato. Perché questo baraccone non può andare avanti in questo modo. Citando Francesca Serafini e il suo “Di calcio non si parla” direi che “Non è il calcio ad essere cambiato. È l’Italia a essere cambiata“. Questa è un’Italia più stanca, stressata, un paese che ha perso la fiducia, l’ambizione e la voglia di emergere. Allora, se proprio dobbiamo cambiare gli interpreti cambiamo anche i modelli di business e giornalisti. Perché non possiamo ricercare una dimensione europea con una cultura d’informazione così provinciale.
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