Lo scemo. Zichichi. Erricheto. Luis Enrique se l’è segnate tutte. Anche il demental coach, er pupetto, lo stordito e tutto lo staff, compreso quel signore che si presenta ad una finale di Champions con la camicia jeans: perché Tonin Llorente è un tipo da epic race in Sudafrica, gara di resistenza in mountain bike, mica da passeggiata sulla Rambla. Luis si presentò a Roma con una frase “Il mio è un calcio associativo” e alcuni giornalisti non mancarono di prenderlo in giro per via degli occhiali da sole da ciclista e dell’iPad sempre a portata di mano, con tanto di statistiche e big data. Come se a Luis Enrique fosse mancato il talento, quando giocava. Forse qualcuno si è dimenticato che giocatore era Luis Enrique, uno che ha avuto solo la sfortuna di giocare in una nazionale spagnola ancora in ascesa. Ricca di buoni giocatori e di potenziali campioni, ma mai degna di una grande manifestazione. Una nazionale sfortunata che, per esempio, nel 1994, abbandonò il Mondiale americano per un clamoroso abbaglio dell’arbitro: una gomitata di Tassotti in piena area di rigore proprio a Luis Enrique, con il pallone in gioco.

Ma Errichetto non si è limitato al talento. Doveva aggiungere qualcosa rispetto a Guardiola, e all’altro illustre predecessore blaugrana, Johan Cruijff. Ed ha puntato sulla disciplina. A volte anche in maniera eccessiva, ma se abbiamo visto correre Neymar, Messi e Suarez un merito, Zichichi, deve pur averlo. Era finito in panchina Totti, ci era finito Osvaldo e persino De Rossi, prima di Atalanta – Roma aveva pagato un ritardo alla riunione tecnica con la tribuna. Luis ha ribadito le cose a Barcellona, arrivando persino ad un passo dall’esonero, per via di uno screzio con Messi, gestito benissimo dalla società. Adelante e pedalare, insieme. È forse proprio da quel dissapore di ottobre il Barca è ripartito come non mai, con Messi responsabilizzato e finalmente “libero” di non dover fare tutto da solo, affiancato da due fenomeni e non da due sparring partners.

Fonte: elpais.es
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Facile vincere con quei tre li davanti” è il motto più ricorrente del post-finale, ma chi sa di calcio, sa anche che non è affatto vero. Il calcio è uno sport di squadra e tre fenomeni non bastano. Serve un punto di equilibrio, un Mascherano che svolge il doppio ruolo di centrale e metodista, un po’ come avrebbe potuto e dovuto fare De Rossi, nell’idea romana di Luis Enrique, per allungarsi la carriera e raggiungere livelli mai toccati di carisma e duttilità tattica. Serve un Rakitić, che magari non incanta per il tocco di palla, ma sa come inserirsi e spaccare in due le partite. Ecco, prendete due – tre idee come queste, solo apparentemente semplici, mettetele assieme, mescolatele con la fame che non è mai facile far venire ad un gruppo di giocatori che ha vinto tutto e più di tutto, all’organizzazione e alla disciplina e avrete una squadra imbattibile.

C’è molto di Cruijff in questo Barcellona. C’è molto di quel progetto iniziato quasi 25 anni fa, un’eternità calcistica, che ha portato a Barcellona ben cinque Coppe dei Campioni. Solo che quella squadra poteva contare sulla fame di chi non aveva vinto, sullo spirito combattivo della Catalunya irrorato dal nerbo basco di José María Bakero e Txiki Begiristain. Questa squadra è invece un gruppo di ragazzi vincenti che ritrovano entusiasmo ogni volta che qualcuno gli dice che sono finti. Sembrava così l’anno scorso quando con il Tata Martino non riuscirono a centrare nessun obiettivo, e invece rieccoli qui a festeggiare un triplete. E riecheggia quella scritta stampata sulle maglie dopo la vittoria della Liga del 2010, quando persa l’occasione di andare in finale, per colpa di Mourinho e della sua Inter, i giocatori si presentarono alla passerella finale con una maglietta straordinariamente significativa, visionaria “Non penses en una temporada, penses en la historia“.

Fonte: ebay.com
Fonte: ebay.com R.Checa

È proprio questa la differenza tra la mentalità di Cruijff, ripresa poi a modo proprio da Guardiola e Luis Enrique, e tutti gli altri progetti (o presunti tali) sparsi in giro per il mondo. Lì a Barcellona si pensa alla storia, ad un cammino iniziato da una visione e da un modulo che può sì variare, ma solo perché è il calcio che cambia, e nel frattempo non puoi restare ancorato alle tue idee di un tempo. Ma quando abbiamo visto, su un calcio d’angolo battuto dalla Juventus, i tre attaccanti del Barcellona restare là davanti ad aspettare la ripartenza, ci siamo ricordati delle parole di Cruijff, a proposito della sua squadra bassa e poco incline al gioco aereo: “Io gli lascio quei tre lì davanti (Romario, Stoichkov e Laudrup), poi vediamo gli avversari che fanno“. E gli avversari, in effetti, ne lasciavano dietro almeno 5, se non 6. E così è stato per la Juve, che quasi mai si è trovata a sfruttare un calcio piazzato con tutte le sue torri.

Fonte: lapress
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Luis Enrique, l’asturiano convertito catalano che ha giocato nel Real ma non ha mai amato Madrid, non ha inventato nulla. Ha solo preso il meglio dalla storia del Barca per calarlo nell’attualità e andarsi a prendere tutto. Sembra semplice ma non lo è per nulla. Nel calcio nulla è scontato, nemmeno una dedica. E per questo, quando Errichetto dice “Un saluto a tutti i tifosi della Roma” sembra persino sincero. Poi aggiunge “E anche alla società” con quel ghigno di chi sa di averla fatta grossa davvero e di essersi tolto un sassolino da un paio di scarpe molto poco fashion. Ma che hanno fatto il giro del mondo, insieme alla sua scatenata esultanza. Perché battere la Juventus e alzare la coppa non era affatto cosa dovuta. Onore al merito di Luis, allora.

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