A 19 anni la scelta più difficile da compiere è se intraprendere o meno un percorso universitario. Iscriversi ad un corso di laurea condizionerà sicuramente il proprio futuro, traslerà di qualche anno l’ingresso nel mondo del lavoro, non garantirà l’immediata indipendenza economica ma probabilmente aprirà gli orizzonti verso maggiori ambizioni e verso occupazioni meglio remunerate. Ma in Italia serve ancora laurearsi per trovare lavoro?

I dati dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) indicano che l’Italia è ben lontana da quel 40% di laureati nella popolazione di età 30-34 anni, obiettivo fissato dalla Commissione Europea per il 2020. Aspettative che lo stesso governo italiano ha dovuto ritrattare proponendo un più realistico 26-27%. L’Italia non primeggia, a voler usare un eufemismo, per la quota di laureati sia se consideriamo la fascia d’età 25-34 anni (21% contro il 39% medio dei Paesi OCSE) sia quella compresa tra 55-64 anni (11%). Un dato ancor peggiore è rappresentato dai neodiplomati che si iscrivono a un corso di studi di livello universitario, solo il 30%.

Dal 2003, anno in cui si è registrato il picco con un +19% rispetto al 2000, abbiamo assistito a un calo costante e irreversibile di immatricolazioni, figlio dell’idea “quasi quasi nemmeno inizio e comincio subito a lavorare”. Un’idea ben presto smentita. Dati Almalaurea (XVI rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati) rivelano che i lavoratori con la sola scuola dell’obbligo sono sicuramente i più colpiti dalla crisi, il cui tasso di disoccupazione tocca il 45%, subito dopo ci sono i diplomati con il 28% e, infine, i neolaureati (laureati di età compresa tra i 25 e 34 anni) con il 16%. Dall’infografica (dati OCSE,Istat, Almalaurea) è possibile individuare quale sia la crescita di questi dati dal 2007 al 2013 e dedurre che i laureati godono sicuramente di vantaggi occupazionali rispetto ai diplomati in congiunture negative come quella a cavallo della recessione.

Laurea: in Italia serve ancora per trovare lavoro?

I fattori di sfiducia derivano principalmente dalla tempistica di accesso al mondo del lavoro con tutto ciò che ne consegue. Finito il percorso di studi e trovato l’impiego, infatti, occorre ancora altro tempo prima di percepire uno stipendio (diversi contratti prevedono solo un rimborso spese) e ulteriore tempo prima che la retribuzione sia “proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, come recita l’art. 36 della Costituzione italiana.

Nonostante la crisi dell’occupazione faccia perdere fiducia nel valore del “pezzo di carta”, molti giovani comprendono, però, che le difficoltà si superano aumentando l’impegno, tant’è che l’età media del termine degli studi è oggi pari a 25,5 anni per la laurea di primo livello e 26,8 per le magistrali a ciclo unico. Le energie e le motivazioni rimangono, dunque, la fonte primaria per generare la spinta al cambiamento della propria condizione e di quella del Paese.

In questa prospettiva, si può asserire che studiare, al giorno d’oggi, non garantisce più un’occupazione “sicura” come in passato. Nell’arco della vita lavorativa, però, la laurea continua a rappresentare un forte investimento contro la disoccupazione, anche se meno efficace in Italia rispetto ad altri paesi. Uno dei pochi mezzi per garantirci un futuro.

[Cover source: grid.mk]