Tra le tante scuse che si possono ricercare per criticare gli americani, ce n’è una che proprio non regge, anzi non ha mai retto: a sfornare serie tv, in termini di quantità e qualità, l’America è dieci spanne sopra il resto del mondo. E se credete che ci riferiamo a Breaking Bad e Game of Thrones, siete già rimasti indietro.
Perché il bello arriva proprio adesso. Mai come in questo esatto momento storico l’appeal dei serial a stelle e strisce è stato così forte. Non che prodotti di assoluto valore, capaci di ritornare in onda anche a distanza di tempo in replica, abbiano latitato negli ultimi vent’anni: dal lynchiano Twin Peaks a Oz, da Prison Break a Dexter, e via dicendo. Si avverte però, nel decennio in corso, un’atmosfera diversa, ambiziosa e pragmatica allo stesso tempo: rispetto al recente passato c’è innanzitutto una differenza di approccio, prima che di forma. I soggetti, i cast, i formati: lo standard che si è consolidato ha trovato un equilibrio in grado di produrre dei veri e propri capolavori.
Prendiamo True Detective ad esempio: il prodotto ideato da Nic Pizzolatto e Cary Fukunaga, con protagonisti Woody Harrelson e il premio Oscar Matthew McConaughey, si basa su una storia sviluppata in otto episodi. Una fiction lunga (per usare un lessico all’italiana) fortemente debitrice del grande schermo, non solo per il soggetto, ideale per un thriller alla David Fincher, ma anche per la fotografia e la gestione del tempo. É un pò come se i produttori avessero avuto l’intenzione iniziale di girare un film, per poi virare sul differente format pur di non rinunciare ad elementi fondamentali dell’opera, come l’approfondimento psicologico dei personaggi (quello di McConaughey è, semplicemente, indimenticabile) o le false strade su cui i protagonisti si imbattono nelle loro indagini. True Detective, manco a dirlo, ha già pienamente convinto in patria: da settembre Sky Atlantic lo porterà in Italia.
Un discorso simile si può imbastire per Fargo, un’altra serie che di cinematografico presenta tantissimo, sin dal titolo, che palesa l’ispirazione alla pellicola dei Coen del ’96, quella che fruttò un Oscar a Frances McDormand. Serie antologica, dopo le prime tre puntate della stagione d’esordio, ambientata nell’innevata Bemidji (Minnesota), Fargo ha già folgorato il pubblico statunitense. Anche grazie ad un cast anomalo ed esaltante: ci sono un bravissimo britannico esploso tardi, Martin Freeman (il Bilbo Baggins de Lo hobbit), uno degli interpreti più sottovalutati ed efficaci di Hollywood, Billy Bob Thornton, il figlio di Tom Hanks, Colin, ed Allison Tolman, al primo ruolo di peso della sua giovane carriera.
A proposito di cast, e a proposito di realismo, stiamo già avendo modo di apprezzare – sempre grazie a Sky Atlantic – House of Cards. Ovvero la risposta di Kevin Spacey (altro Premio Oscar) a chi lo dava per finito. A fianco di Robin Wright, Spacey si mostra in stato di grazia, in uno di quei ruoli da ambiguo e spietato doppiogiochista che lo hanno reso grande, e che viene esaltato da un soggetto e da un ritmo che conquistano.
Non bisogna però essere sorpresi di vedere certi volti in prodotti non destinati al grande schermo: l’opera per la TV non è solo il trampolino di lancio per gli attori più o meno agli esordi e non è più lo spazio in cui la vecchia gloria consuma il proprio prepensionamento. Il serial è ormai un banco di prova severo ed attendibile quanto un film d’autore
Anche questo elemento accresce l’idea di intercambiabilità tra cinema e prodotti seriali: anzi, è un pò come se il cinema stia tirando il fiato e riviva i suoi momenti migliori attraverso i fenomeni del piccolo schermo. Dilatare il tempo, per ritrovare la propria essenza.
In America, insomma, è l’era del piccolo grande schermo. Godiamocela anche noi.
[Ph. Credits: Sky Atlantic HD]