Di sicuro non saranno notti magiche. Almeno non sarà quella la sensazione. Perché dove c’è paura non può esserci magia, e questo Europeo di Francia nasce all’ombra di un conflitto che mai, prima d’ora, era stato così feroce, seppur privo di nemici veri e ben identificabili. Le manifestazioni sportive sono un momento di festa, e come tali andrebbero vissute. Avere paura è già una sconfitta, e questa volta non c’è la sensazione di sospensione, a volte ipocrita ma comunque gradita, dalle tensioni. Persino alle Olimpiadi di Berlino 1936, Goebbles suggerì a Hitler di dare al mondo l’idea di un paese sì unito, sì magnificente, ma dove mai nessuno potesse sentirsi in pericolo. Storie diverse, perché questa volta non dipende dal paese ospitante, la Francia, ma da gente disposta a disfarsi della propria vita pur di uccidere. Una filosofia folle che per nutrirsi ha bisogno di visibilità mediatica e colpi ad effetto.
Quello che è successo a Parigi questo inverno, con la strage al Teatro Bataclan e l’esplosione proprio a Saint Denis, nel cuore di una delle banlieue più calde e controverse d’Europa. non ci fa stare sereni, e neppure indifferenti. Perché il nemico è troppo forte, e per la prima volta non si tratta di un governo, di una dittatura o di un oppositore aggirabile. Perché il mondo nel frattempo è cambiato e il miracolo di integrazione di Francia ’98, con Zidane, Djorkaeff, Thuram e tutti i campioni cresciuti nei sobborghi di Parigi, si è rivelato, diciott’anni dopo, un percorso tutto da iniziare, o quantomeno da rivedere. Si sprecarono, nel 1998, analisi sociologiche sul melting pot e l’integrazione virtuosa. Sembra impensabile, assistere, quasi un ventennio dopo, ad una sequenza di amichevoli rinviate per allarmi bomba falsi ma mai campati per aria. Intanto, dalla Francia al Belgio, altro paese colpito al cuore più volte, è cresciuto un sentimento di odio e violenza difficilmente estirpabile, impossibile da affrontare.

Sono lontani gli anni ’90, quando in Italia si respirava un clima di festa e felicità. Una sorta di riedizione moderna de “La Dolce Vita”, e mai colonna sonora (quella di Bennato e Nannini) fu più azzeccata per un Mondiale. Su tutti i balconi una bandiera, in tutti i bar una mascotte, bruttissima, che ricordava che quello era il nostro Mondiale. Eppure c’erano anche allora motivi per preoccuparsi.La mafia, prima di tutti, stava per insinuarsi pesantemente nelle estati italiane, ma avrebbe atteso quelle successive per infliggere i colpi mortali. Poi il Muro di Berlino, che era caduto da poco e l’Unione Sovietica che stava per disgregarsi. Ma si presentò in Italia con la sua nazionale a fronteggiare paesi che avevano già iniziato il loro processo di riconversione verso Occidente. La Romania, ad esempio, presentava una bandiera con un buco al centro, e per la prima volta il popolo rumeno poteva uscire dai confini per seguire la squadra di Hagi Sabau e Raducioiu.
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Fu un trionfo, una festa, e le tensioni si sciolsero al gol di Lacatus contro i sovietici, in uno stadio in festa. L’illusione e la bellezza del gioco ci resero coraggiosi e cancellarono le ansie in un attimo. Ai Mondiali italiani c’era anche l’ultima Jugoslavia, quella che “se gli dei del calcio avessero avuto un po’ più di gusto estetico” avrebbe vinto quell’edizione. Ma gli dei del calcio non si curano dei problemi antropologici di una squadra che parla sette lingue, all’interno della quale ci sono religioni diversi e credi politici estremi. Ma tutto questo rese quella manifestazione unica nel suo genere, e la maglia CCCP dell’Unione Sovietica “vintage” prima del tempo.

Due anni dopo si giocò un Europeo passato alla storia come quello della favola Danimarca. Tutto vero e bellissimo, peccato che la FIFA decise, ancora una volta, di fare uno sgarbo agli dei del calcio di cui sopra, e di privarci della nazionale che non solo aveva eliminato la Danimarca, ma che si presentava in Svezia come la grande favorita: la Jugoslavia, che qualche anno dopo sarebbe diventata CSI e poi Serbia, Croazia, Montenegro, Macedonia e tutte le nazionali che oggi soffrono tremendamente a ritrovare l’ardore di un tempo (no, la tecnica non manca). Se tensioni potevano esserci, quelle furono spazzate e l’Europeo diventò un fatto tra nazionali del nord Europa. L’Europeo ariano, quello delle semifinali tra danesi e olandesi, tedeschi e svedesi. Niente mediterraneo, niente est Europa. Niente Europa, forse. I Mondiali americani furono una legittimazione dei nuovi mondi. Quello della Bulgaria e della Romania, che stupirono, ma soprattutto quello degli stuart. Per la prima volta assistemmo a partite nelle quali c’erano persone adibite non a guardare il gioco, come si era sempre fatto, ma il pubblico. L’America diede una lezione di sicurezza e totale controllo su ogni singolo spettatore, abusando a tratti di questo potere andando a disturbare, con un golpe, persino Maradona al centro del campo dopo la partita contro la Grecia. Lo fece con l’arroganza e la legittima presunzione di chi mai prima di allora era stato colpito.

Se l’Europeo del 1996 fu ordinaria amministrazione per gli inglesi (fuori, perché in campo andò come al solito “Il calcio è un gioco undici contro undici dove alla fine vincono i tedeschi“, disse Lineker), il Mondiale 1998 segnò il passaggio verso l’integrazione. La Francia, quella Francia dimostrò al mondo che si poteva vincere grazie al contributo di algerini, azeri, ragazzi della Nuova Caledonia. Fu un trionfo che avrebbe dovuto segnare il passo per tante nazionali, ma soprattutto per tante nazioni, e accadrà. Accadrà con la Germania, che farà il primo grande tentativo tra il 2004 e il 2006, le prove generali nel 2010 e suggellerà nel 2014 un percorso iniziato con sagacia dal tanto bistrattato Jurgen Klinsmann.
Accadrà con molte altre nazionali, dall’Albania che punterà tutto sulla contro-diaspora per recuperare i propri giocatori, al Belgio, che arriva in Francia da favorito con una squadra multietnica che doveva rappresentare solo la faccia più bella dell’Europa. Proprio in Belgio, però, sono nate le tensioni più importanti, divenute terrore a Bruxelles, e in molti dei quartieri indicati come fucine della Jihad sono nati e cresciuti i giocatori che oggi hanno paura, perché vengono visti dai terroristi come simboli del capitalismo, dello schiavismo, mercenari venduti alla nazione che li ospita. Perché così, ospiti, si sentono tutti quelli che considerano l’Europa un posto privo di ideali, un nemico da combattere anche a costo della vita, semmai.

In questo contesto si giocherà l’Europeo del terrore, quello dell’allerta, quello che potrebbe prevedere persino stadi vuoti e gare a porte chiuse. Come se la gioia dell’Europeo, il chiasso dei bar, l’estasi delle macchine scoperte e delle birre possano essere spazzate via trasformando una competizione sportiva in un atto burocratico. Fermo restando che, tecnicamente, quella che ci attende dovrebbe essere una delle kermesse calcistiche più belle ed equilibrate a cui abbiamo mai assistito. Ventiquattro squadre, il meglio dell’Europa e tante sorprese da tenere d’occhio, dall’Islanda alla stessa Albania. Santificare l’evento è un dovere laico di noi sportivi, nonostante la paura. Provare a viverlo senza paura, discutendo di formazioni e gesti tecnici mentre in Francia intelligence e polizia dovranno pensare a proteggere la nostra eccitazione e salvaguardare la normalità. Magari passerà tutto dopo il primo gol, o alle prime polemiche, ma una cosa è certa: comunque vada non saranno notti magiche.