La Scozia è a un bivio. Uno di quelli da “dentro o fuori”. Dopo un lungo braccio di ferro tra Londra e Edimburgo, il 18 settembre 2014 il popolo potrà finalmente scegliere se tagliare o no il cordone ombelicale che lo lega all’Inghilterra. La data non è casuale. Nel 1314 la Scozia combattè una battaglia decisiva per la sua libertà. Re Robert the Bruce guidò alla vittoria sul campo di Bannockburn un esercito di patrioti, infiammati dal sacrificio eroico di William Wallace, il Braveheart cinematografico di Mel Gibson. Settecento anni dopo, dalle Ebridi al Vallo di Adriano, passando per le colline aspre e selvagge delle Highlands, la voglia di indipendenza è ancora forte. Lance e asce sono passate di moda. La battaglia questa volta sarà combattuta a suon di schede elettorali. Come diceva il re Edoardo I nel film di Mel Gibson: “il problema della Scozia è che è piena di scozzesi”. E saranno proprio loro a scegliere il futuro del Paese. A chi andrà alle urne si chiede soltanto di essere dei cuori impavidi, al pari dei loro antenati. Gli interessi politici ed economici in gioco nel referendum, però, sono enormi e le incognite sul futuro del paese ancora di più. Questioni reali che si scontrano con quella visione romantica e idealista della riconquista “popolare” dell’indipendenza dopo secoli di dominio della corona britannica.

Credit Photo: David Cheskin/PA Archive/Press Association Ima
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Perché la storia di questa piccola antica nazione non è che quella di una lotta perenne per l’affermazione della propria libertà, sin da quando, nel 1296, venne ingiustamente occupata da Edoardo I d’Inghilterra. Dalle Highlands alle Lowlands tutto il popolo si ribellò ed elesse a capo rivolta quel William Wallace che dopo aver guidato i suoi connazionali contro l’esercito nemico fino alla vittoriosa battaglia di Stirling Bridge (1297), fu tradito, consegnato agli inglesi, e atrocemente giustiziato. Ma per un eroe caduto ne era nato subito un altro: Robert the Bruce. La sua impresa a Bannockburn fu il passo decisivo per l’indipendenza scozzese, che rimase inalterata per almeno quattro secoli, anche quando Giacomo VI Stuart unì le corone di Scozia e Inghilterra sotto un’unica dinastia. Nell’annus horribilis 1707 il parlamento inglese e quello scozzese firmarono l’Act of Union e la Scozia divenne parte integrante Regno di Gran Bretagna, sotto il casato degli Hannover. La fusione fu però tutt’altro che pacifica. Il malcontento del popolo esplose nelle insurrezioni giacobite, nel 1715 e nel 1745, volte a riottenere la libertà e riportare sul trono l’antica dinastia degli Stuart. Ma la disfatta di Bonnie Prince Charlie e degli Highlanders a Culloden (1746) pose fine ad ogni aspirazione indipendentista. Ogni anelito di libertà venne represso nel sangue, il Disarming Act vietò il tartan, le cornamuse e l’uso del gaelico. Le terre espropriate. Dai Campbell ai MacLeod e ai MacKenzie, fu la fine dei clan. Da allora la Scozia ha seguito le vicende del Regno Unito, fino alla svolta del 1997 quando un referendum popolare ha sancito la rinascita di un Parlamento scozzese. Con la devolution il sogno di una Scozia libera non è sembrato più così lontano.

Credit Photo: Graham Stuart/EPA
Credit Photo: Graham Stuart/EPA

«La Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?», il quesito dello scrutinio referenziale del 18 settembre. La risposta sarà diretta e inequivocabile: “Si” o “No”. Qualunque sia l’esito, si tratterà di un evento storico. A maggior ragione, se si affermasse il partito “Yes Scotland” poiché sarebbe la fine di un’unione che esiste da oltre trecento anni. Le rivendicazioni di indipendenza di oggi non sono frutto del delirio politico di qualche acceso nazionalista con indole separatista, ma il risultato di un lungo e accidentato percorso storico, sociale e soprattutto culturale. La Scozia è una nazione forte ma senza stato, orgogliosamente e ostinatamente attaccata alle proprie tradizioni secolari. Ma l’identità scozzese non è solo kilt, whisky, haggis e cornamuse. È un sentimento profondo che si è forgiato in secoli di sofferenza e di lotte. Gli scozzesi non si sentono inglesi, anche se hanno imparato a conviverci. E non c’è bisogno di tirare in ballo il folklore per accorgersi di quanto siano profondamente diversi. Più “nicer” dei loro vicini, più calorosi, gioviali e spassosi. Meno rigidi e altezzosi.

Credit Photo: Russ/Flickr
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Ma nel referendum non c’è in gioco una questione di identità, non soltanto. Gli scozzesi godono da tempo di libertà che in passato gli erano state negate. Hanno la loro bandiera, la loro religione, le loro tradizioni, la loro nazionale di calcio e di rugby e nessuno più gli impedisce l’uso del kilt o il suono delle cornamuse. No, il separatismo per cui si batte il leader dell’SNP (Scottish National Party), Alex Samond, più che al passato tende al futuro di un paese che sta cambiando, vuole cambiare, e sa che può farcela anche “da solo”. Il divorzio però sarà indolore: una Scozia indipendente manterrebbe la regina come capo di Stato, si terrebbe la sterlina come moneta ufficiale e la tv di stato britannica. Il meglio insomma, a conferma del detto: «Dai a uno scozzese un inch e si prenderà un miglio». Ma allora se tutto questo rimane uguale, cosa cambierebbe con l’indipendenza? La Scozia potrebbe diventare un modello di democrazia prospera, pacifica, solidale e equa. Quasi come una Danimarca con in più il petrolio della Norvegia. Alcuni sondaggi pre-elettorali premiano gli unionisti. Ma al cuore impavido degli scozzesi non si comanda. E allora, chissà, sentiremo ancora riecheggiare, dalle Ebridi al Vallo di Adriano, passando per le Highlands, quell’urlo rabbioso di Wallace: “Per la libertà!”. Per la Scozia.