Il piccolo, grande, segreto di un regista è quello di riuscire a far piacere il proprio film dandogli un’impronta precisa senza scavalcare però con la propria ombra (spesso ingombrante) la trama e gli attori che dirige. Ecco, se c’è qualcuno che a Hollywood sia riuscito meglio di altri in questo negli ultimi anni, quello è senza ombra di dubbio Alejandro González Iñárritu. Messicano, nato in una famiglia povera, costretto ad arrangiarsi con lavoretti umili prima di poter finalmente dedicarsi alla sua arte. Teoricamente sarebbe la perfetta sintesi di quel “sogno americano” di chi è riuscito a realizzarsi dopo tanta fatica. A ben vedere però nelle interviste non ricorda mai quel periodo come triste o difficile, semmai ama sottolineare quanto possa aver influenzato il suo cinema.
La carriera di Iñárritu inizia come compositore, continua come sceneggiatore, si esalta da regista e chiude un ipotetico cerchio nella produzione che lui stesso fa dei propri film. E i ricordi dell’infanzia, la situazione da cui è partito, ricorrono spesso nelle sue pellicole, anzi sono il tema costante all’inizio, accompagnati dall’alone di pessimismo e di crudo realismo della cosiddetta “trilogia del caso”, la serie di film che comprende gli stupendi “Amores Perros”, “21 grammi” e “Babel” che lo consacrano come stella emergente del panorama cinematografico. Il suo è un cinema schietto, forse non innovativo ma mai banale, volutamente pessimista ma mai volutamente lacrimevole. L’alone da “antidivo” di Iñárritu, la barbetta incolta e l’aria spesso irascibile non lo trasformano mai in uno snob, e gli fanno comprendere quando è il momento di attaccarsi artisticamente a qualcuno per poter crescere. Il caso vuole che conosca Guillermo Arriaga, il binomio è tra i più riusciti che si ricordi nel cinema contemporaneo.

E l’intelligenza di Iñárritu sta anche nel saper individuare gli attori più adatti per le sue opere. Che siano giovanissimi ancora sconosciuti (Gabriel Garcia Bernal), divi di Hollywood già affermati (Sean Penn e Brad Pitt) o attori caduti nel dimenticatoio (Michael Keaton), in ogni caso il ruolo per cui sono scelti è ricamato ad arte attorno alla loro figura. E proprio il Keaton di “Birdman” è forse l’esempio più eclatante; il film sembra essere stato scritto per lui, ex divo passato dall’estrema notorietà dei Batman di Tim Burton alla desolazione delle comparsate in pellicole di poco successo. Il regista messicano rispolvera un attore commerciale e lo trasforma in un interprete raffinato ed autoriale. Keaton sfiora l’Oscar e si reinventa una seconda carriera, il merito è di Iñárritu e su questo ci sono pochissimi dubbi. La cura quasi maniacale con cui segue i propri interpreti sul set, la visceralità che mette in ogni scena, il desiderio di spiegare i dettagli in ogni minimo particolare, sono frutto di quella duttilità che lo porta ad essere sceneggiatore dei propri film e perciò a immaginare perfettamente prima come saranno. Il risultato sono attimi di grande cinema che sembrano essere stati semplicemente tirati fuori dagli attori senza sforzo.

E se le origini, l’istrionismo e gli attori che sceglie sono senz’altro i segreti dietro la qualità dei suoi film, è altrettanto vero che Iñárritu sa come strizzare l’occhio alla critica cinematografica e sa come farsi amare a prescindere dai suoi film. Sempre “Birdman” è da prendere in considerazione per capirlo fino in fondo. Film geniale, autocritico, con tratti di metacinema, è l’apoteosi del cinema del regista messicano, con piani sequenza da antologia e una trama tanto semplice quanto geniale. I dialoghi tra Norton e la critica teatrale sintetizzano perfettamente lo strano binomio che si instaura tra chi deve dare giudizi e chi sa (come lo stesso Iñárritu) che probabilmente saranno benevoli. Così come invece il crudo scontro tra Keaton e la stessa giornalista, dimostra ironicamente quella dicotomia mai superata tra cinema d’autore e cinema “commerciale” in grado di vincere ai botteghini, superata solo da rarissimi casi, tra cui proprio quello dello sfrontato Alejandro.

E adesso la sfida di “The Revenant”, la scelta di quello che forse è l’attore migliore della sua generazione, una corsa verso gli Oscar a braccetto. Sarebbe il secondo di fila per Iñárritu e il primo (e meritatissimo) per DiCaprio. I favori del pronostico sono dalla loro parte, anzi forse stavolta è Leo ad essere un gradino avanti. Di sicuro questa nuova pellicola segna un’ulteriore crescita per entrambi, e anche se probabilmente non è nè il miglior film diretto da uno, nè il più bello recitato dall’altro, se vincerà, riuscirà ad entrare nella storia del cinema legata a questi due meravigliosi mostri sacri.