In Italia, nel primo semestre del 2015 i contratti a tempo determinato sono aumentati del 36%. I dati giungono direttamente dall’Inps secondo cui le nuove assunzioni a tempo indeterminato nel settore privato stipulate in Italia sono state 952.359. Le trasformazioni a tempo indeterminato di rapporti di lavoro a termine, comprese le trasformazioni degli apprendisti, sono state 331.917 (l’incremento rispetto allo stesso periodo del 2014 è del 30,6%). Pertanto, la quota di assunzioni con rapporti stabili sul totale dei rapporti di lavoro attivati/variati è passata dal 33,6% dei primi sei mesi del 2014 al 40,8% dei primi sei mesi del 2015.
Non si è fatto attendere il commento del Premier Matteo Renzi: “i dati diffusi dall’Inps dicono che siamo sulla strada giusta contro il precariato e che il Jobs Act è un’occasione da non perdere, soprattutto per la nostra generazione”
Dai dati dell’osservatorio sul precariato dell’Inps emerge inoltre che nel primo semestre del 2015 la variazione netta tra i nuovi rapporti di lavoro e le cessazioni (2.815.242 primi e 2.177.002 gli ultimi) è pari a 638.240 nuovi occupati, in netto aumento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno quando il saldo fu pari a 393.658 lavoratori.
Tuttavia per avere un quadro completo della situazione lavorativa italiana bisogna precisare che i dati, così diffusi tendono a creare confusione perché tra i numeri “manca l’analisi più recente sulla quota di contratti fissi sul totale delle assunzioni. Ebbene, non è difficile evidenziare come a giugno questa quota, con il 34,5%, continui a calare (-5% su maggio e -10% su aprile) tornando ai livelli di alcuni mesi del 2014. Sembra così esserci più coerenza con i dati, non positivi, dell’Istat sull’occupazione a giugno” spiega il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy. “In sostanza – prosegue Loy – il dato dell’Inps conferma che la fiammata di marzo e aprile sulle assunzioni a tempo indeterminato, frutto della poderosa dose di incentivi (che costeranno 11 miliardi in tre anni), si sta affievolendo. E sul campo rimane la perfetta coincidenza tra la bassa crescita della nostra economia e la non crescita del lavoro”
In realtà il nostro Premier sapeva più che bene che questa sarebbe stata una conseguenza alle agevolazioni relative alla Legge di Stabilità. Ma i dati potrebbero non rispecchiare l’effettiva situazione del sistema lavorativo italiano. A tal proposito, è inevitabile fare un raffronto con il resto d’Europa. Considerando che il Bel Paese è solo al decimo posto nella classifica stilata dall’Ocse secondo cui invece il Paese europeo in cui funziona meglio il sistema lavorativo sarebbe proprio l’Olanda con il miglior rapporto tra ore di lavoro e reddito. 29 ore di lavoro settimanale per 35000 euro di reddito annuo.
In seconda posizione si trova la Danimarca: 33 ore di lavoro settimanale per un salario medio di 35 mila euro. Numeri simili sono quelli della Norvegia, che a fronte di 33 ore di lavoro garantisce un reddito annuale medio di 33 mila euro (il welfare qui è ai massimi livelli, con 21 giorni di ferie pagate e ben 43 settimane di congedo parentale).
Dietro l’Irlanda si piazza il cuore pulsante dell’Europa, la Germania. A Berlino e dintorni la settimana lavorativa è di 35 ore e il reddito medio pari a 30 mila euro; il part-time è stato però incentivato con politiche che hanno investito 5 miliardi di euro di fondi, centrando l’obiettivo di portare il tasso di disoccupazione al 5%, anche grazie a misure come questa.
Dopo Svizzera (35 ore setitmanali e 37.500 euro annui di reddito), Belgio (35 ore e 33 mila euro), la Svezia (36 ore e 28 mila euro) e Australia (36 ore lavorative e 39 mila euro di reddito), l’Italia chiude la top ten. Nel nostro paese, le ore lavorative settimanali sono 36 e il reddito medio si attesta a 25.500 euro, con 4 settimane di vacanza, ma un sistema di welfare che sta vedendo via via erodersi benefit e garanzie invece diffuse altrove.
Una parentesi interessante da approfondire, che potrebbe aprirci a nuovi orizzonti è il Paese del Sol Levante. In particolare si può considerare una teoria di Masahiro Okuno-Fujiwara secondo cui le imprese giapponesi, o almeno le più grandi concentrano le loro assunzioni tra i neodiplomati e i neolaureati, ed offrono agli assunti maschi degli impieghi a tempo indeterminato che tendono a durare per l’intera vita lavorativa. Nelle grandi imprese, tradizionalmente, i cambiamenti di lavoro sono sempre stati pochissimi, almeno tra i titolari a tempo indeterminato, e le imprese raramente hanno assunto persone che avessero terminato da tempo gli studi. Inoltre, l’economia giapponese è generalmente considerata estremamente efficiente, con elevati standard produttivi e bassa disoccupazione. Supponendo che le imprese concentrino le loro assunzioni tra i nuovi entrati sul mercato del lavoro e che una volta assunti i dipendenti restino nell’impresa per tutta la loro carriera, se mai nessuno terrà comportamenti scorretti, non vi sarà motivo di licenziamento. Dunque non vi sarebbe nessuno a metà della propria carriera in cerca di lavoro. Certamente questo porterebbe alla mancanza del mercato per simili lavoratori e quindi uno sprono per i dipendenti ad essere sempre corretti, leali ed efficienti, perché un licenziamento causerebbe la cessazione definitiva della propria carriera lavorativa.
Sicuramente la teoria è sempre molto diversa dalla pratica, ma stiamo parlando di uno dei Paese più efficienti del Globo Terreste, da cui forse si potrebbe prendere esempio. Considerando che i giapponesi sono i genitori del sistema di produzione Kanban o Just In Time (JiT) è facile portare a favore alcuni esempio di aziende divenute grandi punti fermi del mercato. È l’esempio della Toyota, che nei primi anni cinquanta era solo un piccolo produttore automobilistico che serviva il mercato giapponese e null’altro.
In confronto ai giganti mondiali, la Toyota soffriva di una drastica mancanza di capitale e della piccola scala produttiva che rendeva impossibile emulare i bassi costi di produzione dei suoi concorrenti. Fu sotto la guida di Eiji Toyoda e Taiichi Ohno che cominciò a sviluppare un approccio specifico che si adattava meglio alla scala e alla natura delle sue operazioni. Una delle più famose innovazioni della Toyota fu proprio lo sviluppo del Kanban, sistema inteso idealmente per eliminare le scorte dal sistema di produzione. Al posto delle scorte predispose un sistema di stretta comunicazione e più grande coordinazione tra le fasi successive del processo produttivo. All’inizio degli anni sessanta la Toyota divenne il leader mondiale nell’utilizzo dei robot industriali oltre che delle automobili che conosciamo ancora oggi.
La strada per l’Italia è ancora lunga ma soprattutto tortuosa e confusa, senza punti cardine e forse senza personalità di spicco – e non di spiccata personalità – che guidino il paese verso un obiettivo a lungo termine che non sia solo fumo negli occhi per tutti gli Italiani, che vedono come unica possibilità e speranza per il futuro l’emigrazione verso paesi più efficienti e che credano nell’ingegno e nel contributo dei giovani, vero motore di ogni economia.
[Credits Cover: baranq]