Philip Seymour Hoffman, Forest Whitaker, Daniel Day-Lewis. Ma anche Jeff Bridges, Colin Firth, Matthew McConaughey e Daniel Day-Lewis (atto secondo). Quale tratto comune presenta questa sfilza di nomi? Sono i sette vincitori nelle ultime dieci edizioni del Premio Oscar come miglior attore che avevano già trionfato nello stesso anno ai Golden Globe nella categoria interprete maschile in un film drammatico. Il 70% dunque negli ultimi dieci anni: numeri che parlano chiaro. Ecco perchè il fresco vincitore del Globe come attore protagonista nell’ambito Drama, Eddie Redmayne (che ne La teoria del tutto interpreta meravigliosamente Stephen Hawking) può iniziare a sentire il peso della statuetta che conta in tasca. Attenzione però: bisogna ancora fare i conti con quel restante 30%.

Anche perchè quel 30% è rappresentato da concorrenti che a perdere, quest’anno, non ci pensano proprio. Pensate a Steve Carell, ad esempio. Finora un dignitoso interprete, con predilezione per il comico – o al massimo la commedia – e che era già stato memorabile in Little Miss Sunshine. Nel 2012 però Bennett Miller, che con due film era già stato nominato all’Oscar, sceglie Carell per un ruolo che con la commedia ha ben poco da spartire e costruisce attorno a lui un trio – completato da Channing Tatum e Mark Ruffalo – su cui poggia Foxcatcher, un’incredibile storia vera che mescola sport e vita, cronaca e privato. Quella del multimilionario schizofrenico John E. du Pont, per Steve, è palesemente l’interpretazione della vita: un’applicazione maniacale alla figura dell’inquietante du Pont, propiziata da un interminabile make-up e da un eccellente lavoro su voce e postura. Considerandola individualmente, si fa a fatica a non ritenere la performance di Carell da Oscar.

A proposito di film della vita, non c’è bisogno di consultare il Morandini per constatare che, fino ad oggi, quello di Michael Keaton è rappresentato dal Batman burtoniano, coi primi due capitoli. Schiavo di un personaggio che verrà poi ripreso e rifatto da altri volti più o meno convincenti, Keaton (il cui vero nome è Michael John Douglas) non bisserà mai il successo raccolto all’alba degli anni ’90, finendo ai margini di Hollywood. Fino a quando quel piccolo genio messicano di Alejandro González Iñárritu non lo recupera per cucirgli addosso uno dei film più interessanti che vedremo quest’anno in Italia, Birdman. La sorprendente interpretazione di Keaton all’interno della parabola di un attore legato alla figura di un supereroe interpretato vent’anni prima e in cerca di riscatto artistico gli vale, prima, la candidatura il Golden Globe come miglior attore in ambito Comedy/Musical, poi, la prima nomination agli Oscar. Che vinca o meno, Keaton ha già aggiornato la casella personale ‘film della vita’.

Riguardo le chance del protagonista di Birdman, è invece consigliabile – tornando per un attimo a numeri e percentuali – non quantificarle considerando i vincitori degli ultimi dieci anni: dal 2005 in poi solo Jamie Foxx (Ray) e Jean Dujardin (The Artist), hanno centrato il bersaglio grosso dopo aver ottenuto il premio da miglior attore per commedia o musical.

Certo, nel 30% che insidia la leadership di Redmayne ci sarebbero anche l’appeal del simpaticone dagli occhi di ghiaccio Benedict Cumberbatch di The Imitation Game e il Bradley Cooper di American Sniper, alla prima (sorprendente) candidatura da protagonista, dopo le due da best supporting actor (a Jake Gyllenhaal e Ralph Fiennes non piacerà questo elemento ma questa è l’Academy, bellezza).

La sensazione però è che saranno i primi tre citati a darsi battaglia e che, proprio stavolta, dovremmo dimenticarci la storia del 70% e assegnare un 30%-30%-30%. In una delle corse all’Oscar più avvincenti degli ultimi anni.

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