Bravo, bello e giovane, l’attore di origini padovane Luca Bastianello– classe 1979- che ha debuttato nel panorama teatrale e televisivo nell’ormai lontano 2003 ricevendo, sempre nel corso dello stesso anno, il premio Oscar dei Giovani in Campidoglio. Inoltre, Luca ha preso parte al trhiller-horror La notte del mio primo amore e, nel 2006, ha esordito nella soap opera di Canale 5 Vivere– dove per due anni ha vestito i panni di Diego Blasi- per poi girare, lo stesso anno, la miniserie Tv Butta la luna. L’attore ha anche avuto un ruolo importante in CentoVetrine, in La donna che ritorna, dove ha recitato al fianco di Virna Lisi, e in Rosso San Valentino, dove ha conosciuto Alexandra Dinu, la donna che ha amato nella fiction e di cui si è poi innamorato nella vita reale e che è, infatti, la sua attuale compagna.
Sono passati anni dal suo esordio, ma Luca Bastianello è ancora pieno di sogni e ambizioni, che ha gentilmente svelato a Il Giornale Digitale con quest’intervista esclusiva.

Cosa è cambiato di Luca dai tempi del suo esordio, nell’ormai lontano 2003?

Sicuramente una maggiore consapevolezza della vita: non ho più paura di morire, non mi fermo alle solite analisi, riesco a incrociare più dati alla volta, mi dedico a ciò che può rendermi felice insieme alle persone che amo e non sottovaluto mai la paura, anche se cerco sempre di non farmi dominare da essa.
Dopo 15 anni di lavoro ho acquisito una certa esperienza, ma mi piace sempre guardare avanti, non mi adagio, sento che devo cercare di migliorarmi sempre, trovare fuori e dentro di me nuovi stimoli, e rimango un eterno curioso di tutti gli aspetti dell’esistenza, della mia e soprattutto di quella altrui.
Ogni volta che prendo il treno o faccio un viaggio basta un solo pensiero, una parola di uno sconosciuto a riportarmi agli inizi di quel lungo viaggio che è la nostra vita, all’ingenuità con cui per esempio affrontavo i miei primi lavori, all’allegria che invadeva le mie giornate e che ora ha lasciato spazio a un’osservazione più attenta dell’animo umano, a una maturità che sto cercando di comprendere fino in fondo, visto che cambia ogni giorno. La vita riserva sempre delle sorprese, belle e inevitabilmente brutte: alcune possono ispirarci, altre ci costringono a seguire percorsi più difficili. Per questo motivo non mi piace fare bilanci, pensare troppo al passato è pericoloso quasi quanto progettare troppo il proprio futuro. Non si può sempre avere il controllo dei lavori che scegliamo, l’andamento delle storie personali che abbiamo, ma qualcosa mi guida sempre verso una luce, un ottimismo che ho sempre avuto concentrandomi sul presente, e questo modo di vedere la vita credo sia l’unica vera arma che abbiamo contro la concezione del tempo psicologico.
È difficile vedere sempre il lato positivo della vita, ma è un arte che all’attore non deve mai mancare, soprattutto in tempi difficili come quelli che stiamo attraversando. A volte, per sentirmi vivo, devo salire sul palcoscenico o trovarmi sul set di un film ma, quando questi preziosi amici mancano all’appello, mi basta osservare la realtà che mi circonda, è sinceramente il miglior aiuto e stimolo che un attore possa avere. Leggo di più, scrivo molto, viaggio spesso, penso diversamente, scelgo cosa studiare, e osservo senza giudicare. “La mia verità, muta“, è il titolo che ho scelto per raccontare la storia dei miei primi 35 anni da essere umano: “muta“, nella doppia accezione di aggettivo e di verbo. A quella verità, che ho scoperto a poco a poco dentro di me, manca solo la voce e, se potesse parlare, forse sceglierebbe l’oblio, perché ha bisogno di essere scritta per trovare il coraggio di essere compresa e dichiarata apertamente; e poi “muta“, cambia, perché vive in uno stato di continuo divenire, come la realtà a cui diamo diverse caratteristiche a seconda degli aspetti che viviamo, ma aspetti che rispondono solo agli schemi del passato.
Oggi, la mia realtà è quella di un essere umano che osserva e cerca di capire, che avverte certamente un’urgenza di cambiamenti, a livello individuale e di società, che cerca nuovi orizzonti contro la nuova profonda crisi esistenziale globale, ma che non aspetta una nuova rivoluzione interpretativa delle cose, tutto quello di cui abbiamo bisogno c’è già, a livello psicologico, antropologico, economico e sociale.
Siamo terrestri da troppo tempo per dimenticarci della terra e di come si vive. Chi siamo? Ormai il processo del relativismo etico degli ultimi cinquant’anni ha prodotto solo vie di fuga dalla realtà, e forse dobbiamo tornare a guardarla con occhi diversi, o forse nell’era dell’umandroide qualcuno o qualcosa ci costringerà a chiuderli per trovare la forza di respirare finalmente tutti insieme. Il mondo nuovo è qui, ora, non domani.

[Credits photo: Virginia Farneti]
[Credits photo: Virginia Farneti]
È stato difficile nel corso degli anni allontanarti dal cliché attribuitoti dalla società di Federico Bettini, personaggio da te interpretato in CentoVetrine?

Nessuna difficoltà, il 2009 è stato un anno importante per gli incontri professionali e per alcuni grandi cambiamenti psicofisici, tra cui anche un’operazione agli occhi che mi ha ridato la vista. Ho dedicato i primi sei mesi del 2009 a un personaggio che il pubblico aspettava di rivedere da dieci anni, Bettini, appunto. Ci ho creduto e sono stato ripagato con l’amore del pubblico. In ogni replica del Cyrano– spettacolo che mi ha portato per i sei mesi successivi al lavoro di CentoVetrine e a percorrere quasi tutta l’Italia- ho visto con i miei occhi e sentito con le mie orecchie il risultato di quello che avevo fatto all’inizio di quell’anno, la determinazione e l’impegno ripagano sempre.
La nostra società è troppo pigra, abituata ancora a pensare male degli attori di soap opera, o peggio a pensare troppo rigidamente, andare per schemi o preconcetti, pur sapendo che molti degli attori più grandi hanno iniziato proprio da esse. Il teatro “è un luogo dove si giuoca a far sul serio“, e io credo che la vera professionalità sia quella di affrontare una scena di CentoVetrine con la stessa passione e preparazione con cui si affronterebbero un testo di Shakespeare o un film di Malick. A volte è possibile, a volte non è impossibile. Qui forse esiste la grande differenza tra l’Attore e i tanti improvvisati dello spettacolo. Comunque, se qualcuno si ricorda di un lavoro che ho fatto anche molti anni fa è una felice sorpresa, perché comprendo di aver impresso qualcosa nella mente e nel cuore di quella persona.

Dal 2013 ti sei un po’ allontanato dalla televisione, dedicandoti di più al teatro. Quale preferisci tra questi due mondi, tanto simili quanto diversi?

Potrebbe essere una domanda scontata se non fosse, invece, una delle domande più difficili a cui ancor oggi non so rispondere. Mi piacciano entrambi, perché attraverso questi due mondi posso raccontare storie di personaggi incredibili nelle quali tutti possono rivivere la propria vita. Entrambi i mezzi fanno riflettere sul senso dell’esistenza, anche se sempre di invenzione, finzione, si parla.
Io amo sperimentare, amo improvvisare quasi quanto amo la preparazione, lo studio, la disciplina e la precisione nel mio lavoro. Il teatro lo sento come qualcosa di vivo, energia allo stato puro, un luogo sacro che offre infinite possibilità, infiniti scambi, mai ripetibili allo stesso modo, la vicinanza col pubblico, il quale respiro brucia e riscalda come poche altre esperienze sanno fare. Il teatro non ruba le emozioni all’attore che vive la magia dell’effimero, per poche ore vive ininterrottamente una storia, una catarsi, la bellezza e il terrore dell’attimo su quel palcoscenico in cui sa che ciò che dirà può essere ricordato o dimenticato per sempre, sta allo spettatore accendere la fatica della sua memoria, e all’attore fare in modo di non addormentarlo mai.
Ma come il palcoscenico anche il set mi ha regalato momenti bellissimi, di realtà e immaginazione. Io non amo riguardarmi, ma poter rivedere una scena, una storia, scandagliare e migliorare le emozioni con lo studio sui dettagli, quello sì. E poi gli infiniti particolari di un’inquadratura, il potere delle immagini create intorno ad un personaggio, alla sua creazione, è qualcosa di straordinario.
Credo che il mio lavoro, come la natura e la società, sia un meraviglioso lavoro di squadra, che ti permette, se affrontato seriamente, di non scambiare l’essenziale col transitorio. Quando sono a teatro mi sento a casa, quando sono sul set, sono in vacanza. In entrambi i casi viaggio continuamente.

[Fonte photo: biomineral.blogfree.net]
[Fonte photo: biomineral.blogfree.net]
In “La donna che ritorna” hai recitato al fianco di Virna Lisi. Come è stato lavorare con una simile attrice e cosa hai imparato da lei?

L’emozione di aver lavorato con una grande come lei è pari al dolore di averla persa troppo presto. Tra noi c’è stata, dal principio, un’alchimia perfetta. Produzione, sceneggiatura, regista, cast, una squadra vincente al completo. Sono quegli incontri che rimangono impressi nella memoria per tutta la vita. Per cinque mesi, quasi dieci ore al giorno, mangiavamo e recitavamo insieme, e non ho mai perso l’occasione di parlare con lei di qualsiasi argomento: dai racconti sull’America ai suoi consigli sull’amore, dalle cronache politiche ai racconti di vita. L’attenzione che Virna metteva nel preparare una scena era uguale all’attenzione con cui seguiva la mia recitazione, alla gentilezza che usava con le persone, alla serietà che esprimeva nell’eleganza della sua intimità. Non perdeva di vista niente e nessuno, mi ha insegnato a risparmiare le forze a fine giornata, a concentrarmi senza problemi. Potrei scrivere un’enciclopedia su tutti i consigli che mi ha dato, ma quello più prezioso non lo posso confidare.

Quali sono i tuoi progetti futuri? C’è qualcosa in cantiere?

Non parlo mai senza aver scritto nero su bianco: troppe le (pre)riflessioni sulle aspettative. Nel frattempo sto scrivendo la sceneggiatura per un film, finendo di scrivere il mio primo libro “La mia verità, muta“, ho scritto un monologo teatrale che replicherò presto dal titolo “Love Art Miracle“, un nuovo programma televisivo che manca nei nostri palinsesti e, inoltre, tra qualche mese uscirà un film che ho girato l’anno scorso, un fantasy dal titolo “D.A.D.”, di Marco Maccaferri, in cui interpreto il Sergente Chirby: un soldato che si trova con altri 19 superstiti dentro un buco e deve cercare di sopravvivere in uno scenario apocalittico. Film visionario, feroce, ermetico, necessario.
E per la serie “gli esami non finiscono mai“, ho ripreso con l’università, visto che ho una famiglia di pluri-laureati e, mancandomi solo pochi esami, non posso lasciare le cose a metà. Mio nonno mi ha insegnato che un cerchio per definirsi tale deve essere chiuso, in qualsiasi modo, ma è finito solo quando il tratto della matita si ricongiunge con il tratto iniziale. Ci sono altri progetti in via di sviluppo e molte esperienze che, appena portate a termine, sarò lieto di condividere.

Grazie a Luca Bastianello, da Il Giornale Digitale.

[Cover per gentile concessione di: Luca Bastianello]