Difficile parlare del commercio di tabacchi lavorati nel nostro paese: l’argomento è già normalmente complesso per quanto riguarda accise e guadagni tra stato, produttore e rivenditore ma in Italia c’è molta più gente che si “mangia” quote dei 4/5 euro che vengono pagati per un pacchetto di sigarette. Innanzitutto è opportuno inquadrare per i “profani” la situazione attuale: oggi in tabaccheria un pacchetto da 20 sigarette costa tra i quattro e i cinque euro, e il 75% circa del prezzo lo incassa lo stato tra iva e accisa sui tabacchi lavorati.
Ripercorrendo i prezzi delle sigarette dal 2001 ad oggi scopriamo poi che in soli 12 anni le bionde al bancone del tabaccaio sono passate da 2,75€ a una media di 4,50€, il prezzo è quindi quasi raddoppiato con un tenore di aumenti pari a circa due rincari l’anno. Il prezzo delle sigarette in questo arco di tempo non è mai diminuito, se non ad aprile di quest’anno per poi tornare al livello precedente qualche mese dopo, precisamente il 3 agosto.
Ma non sono gli aumenti a dover spaventare il consumatore italiano, la cosa grave sta nel circolo di soldi sporchi e di manovre sottobanco che coinvolge sia i produttori che il nostro Stato: tutti gli aumenti di prezzo sono stati giustificati dietro continui aumenti di iva e accise, ma non è sempre andata così: infatti in Italia fino a due anni fa esisteva il prezzo minimo delle sigarette, di cui parleremo tra poco. Per quanto riguarda invece i produttori, in Italia le lobby produttrici di sigarette si contano sulle dita di una mano, e tre di esse (Philip Morris, Japanese Tobacco e British American Tobacco) si dividono quasi il 90% dei pacchetti venduti in tabaccheria. Ed è proprio la BAT che nel 2004 ha acquistato l’Ente Tabacchi Italiano, delocalizzando tutta la produzione fuori dal nostro paese e lasciando in cassa integrazione centinaia di lavoratori da decine di stabilimenti (due esempi su tutti Lecce e Bologna, rispettivamente nel 2006 e nel 2010). Dapprima i politici hanno spalleggiato la casa produttrice, piena di promesse di riqualificazione e reinserimento dei lavoratori rimasti a casa, ora però è ovvio che di tutte quelle belle parole non verrà portato a termine nulla, rimarranno solo capannoni vuoti e nuovi disoccupati da inserire nelle statistiche istat.
Ma per il consumatore finale quello che importa è il prezzo, ed è quindi il momento di spiegare la grande furbata del prezzo minimo, croce dei consumatori e dei piccoli produttori, ma delizia delle multinazionali. Il prezzo minimo è stato in vigore in Italia dal 2005 al 2010, prima di essere eliminato da una sentenza europea e, in pratica, fissava una quota sotto la quale non si potevano vendere sigarette (nel 2010 era arrivato a 4,30€). Ora, per le multinazionali il problema non sussiste, ma per i piccoli produttori che hanno provato (con risultati nulli) a concorrere con i big questo prezzo era il killer di ogni business nascenti. Il vantaggio di un piccolo brand sarebbe infatti stato quello di riuscire a vendere a meno rispetto ai prezzi fissi delle lobby, ma con il prezzo minimo nessuno poteva commercializzare sigarette più economiche e dunque, a parità di spesa, il consumatore è ovviamente portato a scegliere il prodotto che meglio conosce, ossia quello più venduto.
Una volta abolito il prezzo minimo è stata guerra: l’ultimo produttore indipendente italiano, la Yesmoke di Settimo Torinese, ha abbassato il prezzo da 4.30€ a 3,80€, producendo provocatoriamente a prezzo di costo, e qua si spiega la generale diminuzione dei prezzi. Vista la sempre crescente fetta di mercato che Yesmoke acquisiva, i big hanno deciso di tagliare drasticamente il prezzo di alcuni loro prodotti, anche di 60 centesimi: la diminuzione è la prima dall’arrivo dell’euro, e tutti pensano che sia dovuta alla bontà irrefrenabile dei produttori, ma in realtà lo scenario è cambiato solo grazie all’Unione Europea che ha costretto lo Stato ad abolire il prezzo minimo. Da qui la storia ci porta a meno di un mese fa, il 3 agosto, quando il Governo annuncia un nuovo aumento delle accise sulle sigarette: ma i big hanno risposto aumentando solamente i prezzi delle sigarette che avevano subito il taglio di costo. Così facendo sono ancora state tutelate le aziende di grandi dimensioni, che possono garantirsi guadagni invariati dalle sigarette di “fascia alta” che già costavano di più, ed un aumento di introiti anche da quelle di bassa fascia.
Insomma, nel nostro Paese non si riesce a condurre una politica equa neanche per quanto riguarda il tabacco: e si gioca soprattutto su una dipendenza, quindi sull’estrema difficoltà che ha il consumatore finale di opporsi a queste oscure manovre. Come al solito in Italia ci rimettono i cittadini, e mai le aziende colluse con lo stato che, oltre ad uccidere milioni di persone l’anno, pensano anche di derubarle un po’.