Lo abbiamo raggiunto oltre la Manica, a Londra. È lì che vive Marco Camisani Calzolari, digital evangelist, scrittore, speaker e ricercatore nel campo della comunicazione digitale. Un curriculum di esperienze minuziosamente cesellato dal 1994 per imporsi come professionista digital oggi sceso dalla cattedra ed accomodato in poltrona per parlare con fare amichevole al grande pubblico di nuovi media, social, ed educazione digitale ogni sabato mattina in diretta su RaiUno a Uno Mattina in Famiglia. Dopo aver formato gli addetti ai lavori, adesso Camisani Calzolari si rivolge a chi non dispone degli strumenti per vivere il digitale come un mondo tutto fuorché ostile. Dal piccolo imprenditore alla casalinga e il ragazzino ai primi approcci con il web, Camisani Calzolari ha scelto la TV e la radio per entrare nelle case degli italiani, perché di digitale se ne parla tanto, ma spesso se ne parla male. Nella confusione mediatica che il digitale porta con sé, insieme alla speculazione narcisistica di chi si improvvisa esperto di un settore ad alta deperibilità e dissemina consigli di dubbia utilità, fare chiarezza non guasta. Abbiamo chiesto a Marco Camisani Calzolari un parere su alcuni temi caldi, dalle startup digitali ai digital champions, fino all’ormai familiare Periscope.
Il 15 Maggio esce Pronto Soccorso Digitale, un libro dove parli alle aziende di come adattarsi alla rivoluzione digitale. Tre must-have per un’azienda che vuole essere competitiva oggi?
Sì, il mio libro parla alle aziende come tanti altri ma lo fa in modo differente. Molti vogliono acculturare l’imprenditore su temi non suoi – dalla strategia al marketing – o sono dei ‘fai da te’. L’imprenditore non vuole il fai da te e spesso si rivolge a un’agenzia per aiutarlo a raggiungere l’obiettivo a cui tende. Io salto tutti gli step che normalmente vengono spiegati all’imprenditore perché faccia lui qualcosa che poi chiederà ad un’agenzia, ma gli spiego perché è meglio scegliere una soluzione o uno strumento in luogo di un altro. Gli spiego cosa e meglio fare per digitalizzare la sua azienda, sia negli aspetti interni che esterni. Se dobbiamo ridurre solo a 3 i must-have per un’azienda competitiva oggi, questi sono: avere gli strumenti giusti per comunicare oggi – dai social alla mail – e adoperare gli strumenti di digitalizzazione più comuni anche per l’operatività aziendale, vedi i tool per la fatturazione online; essere presenti online con un proprio sito web, prioritario, e le estensioni social; usare e capire gli strumenti di misurazione, guardare cosa vendi, a chi lo vendi, come lo vendi, grazie agli analytics.

Startup digitali. Troppe, forse troppo simili e alcune poco utili. Cosa è realmente innovativo oggi per chi vuole fare impresa nel settore digital?
Un tema complesso. Intanto occorre distinguere tra imprenditori e startupper. Quello degli startupper è un mondo che ha i suoi codici, le sue regole e meccanismi. Nella maggior parte dei casi – a meno che tu non sia in California – è un mondo fatto di più chiacchiere che sostanza. Ricordo che Telecom con Working Capital dà 25.000 euro ai vincitori. Io con 25.000 non pago nemmeno un dipendente. Se devi fare impresa quel finanziamento è meno di zero. La maggior parte delle aziende che ha successo oggi nel mondo – vedi ad esempio Airbnb, Uber, etc – gode di finanziamenti milionari. Se non investi tanti soldi non vai da nessuna parte. Se chiedessi a qualcuno in strada di Uber mi direbbe che è stata una bella invenzione. In realtà non lo è affatto, bensì è il come è stata sviluppata e quanti soldi sono stati spesi per il suo lancio e sviluppo che la rendono buona. Non è nemmeno più possibile oggi essere locali e spendere meno, restingendo il contesto di mercato. Oggi un prodotto deve avere respiro globale, altrimenti il più grosso ti mangia. Per competere l’unico terreno valido oggi è il mondo, o le macro-aree (americana, europea, asiatica). Al di fuori di questo, tutto il resto è destinato a chiudere o farsi acquisire.
Tu parli di digitale e social in TV ogni sabato mattina. Può essere la TV un canale idoneo per parlare al pubblico di rivoluzione digitale? Qual è il target che meglio recepisce i tuoi input?
La TV si sta dimostrando un canale più che idoneo e i dati d’ascolto del programma lo dimostrano. Un italiano su cinque guarda il sabato mattina il mio spazio in TV. Parlo alle signore, la nonna e la mamma, o i lavoratori che il sabato da casa possono guardare la TV. Poi parlo agli imprenditori, i piccoli, un pubblico che deve sapere quanto è importante il digitale. A loro mi rivolgo tramite RTL 102.5 la mattina alle 8.00 una volta al mese, così mentre vanno a lavoro ascoltano la mia rubrica. Poi ricorro al libro – e c’è chi pensa sia anacronistico per me un libro di carta – perché l’artigiano che non sa cos’è internet non lo raggiungo altrimenti. Il pubblico è ampio. Esistono due fasce di persone che hanno bisogno di ascoltare questi argomenti. Più del 50% delle persone non sa nemmeno di cosa stiamo parlando. Le statistiche danno il 50% degli italiani su internet, ma non è vero. Il mondo Whatsapp, per esempio, falsa queste analisi, dando su internet persone che in realtà non sanno cosa sia. Poi ci sono quelli che hanno accesso a internet ma continuano a mandare il fax, e qui parliamo di 30 milioni di italiani almeno. Italiani che hanno anche figli, e se un figlio va in internet diventa importante avere un minimo di cultura digitale per capire cosa sta guardando e come disciplinare il suo uso della rete. L’assenza dal digitale è impossibile oggi perché il mondo parla questa lingua. E parlarne attraverso un canale diverso per ogni target è indispensabile per fare educazione digitale.
Digital Champions, per alcuni conta più esserlo che farlo. È recente un’interrogazione parlamentare a Riccardo Luna su chi risponda di queste persone, come vengano scelte e circa la libera concorrenza entro la quale questi operano. Cosa ne pensi?
Ero stato coinvolto inizialmente, ma dopo un giorno sono uscito avendo visto la vera natura del progetto. C’è confusione a partire da chi è il Digital Champion. Doveva essere uno e adesso sono migliaia. C’è un conflitto anche nella denominazione. Si sarebbero dovuti chiamare ‘volontari del digitale’ semmai, ma il ‘champion’ per definizione dovrebbe essere uno. Essendo un ruolo istituzionale può creare conflitti d’interesse nella fornitura di servizi alla pubblica amministrazione, come è stato sollevato nell’interrogazione che menzioni. Vedo oggi arrivare curricula con scritto ‘digital champion’ e mi vien da ridere. Che poi non è un problema di chi si compiace del titolo, ma di chi gli ha dato quel titolo.

Periscope, gli hai riconosciuto il merito di averci svelati così come siamo, non artefatti dietro un filtro Instagram o una luce posata. Che valore riconosci a questa app, oltre alla sua “umanizzazione”?
Google Video era un prodotto che ha chiuso e Google poi si comprò YouTube. La differenza di base era che Google non aveva l’embed code, mentre YouTube sì. Un dettaglio ha fatto la differenza, perché ha colto l’esigenza degli utenti. Periscope è l’insieme del dettaglio, avere i commenti in tempo reale sopra al video; averlo integrato con Twitter, che ha comprato; la campagna vincente di comunicazione con Vip; la grande semplicità con cui è stato realizzato. In questi quattro aspetti risiede il successo di Periscope. La potenza di Periscope – a livello mediatico e sociologico, se vogliamo – risiede nella capacità di mostrare ognuno come è, anche l’amministratore delegato mentre sorseggia un vino in salotto. Lo usiamo in maniera arrangiata, senza badare alle luci o il montaggio che fanno normalmente la qualità di un video, ma che in un app che basta cliccare un tasto e ti manda online sono arrangiati. Periscope mostra per quello che si è.
E dello Sharenting cosa ne pensi? Hai un figlio e ne parli spesso su Facebook.
È molto soggettivo. Ridurre l’esposizione dei minori in rete è un buon consiglio da dare in generale. Ognuno decide poi con propria cultura e coscienza. Mio figlio, per esempio, è molto educato con questo mezzo. I suoi canali sono controllati. Lui è su Facebook con uno pseudonimo e sa che deve venire da me appena qualcuno di nuovo lo contatta. I matti in giro esistono, ma prescindono dal fatto che si pubblichino le proprie foto con i propri figli su Facebook, se mi fa piacere raccontarli online. Modero le foto del più piccolo per ovvi motivi, ma non vedo il problema di far avvicinare i bambini al web se si sa come usarlo.
Digital expert, social media cosi, si scherza tanto sull’inflazione di queste figure che spesso nasconde poca sostanza e molta ‘fuffa’, come l’hai definita simpaticamente anche tu. Cosa rende un esperto digitale oggi realmente esperto? E quanto l’esperienza può contare in questo campo dove il livello di preparazione è altamente deperibile?
Un esperto è uno che sulla carta ha una verticalità di conoscenze e competenze circa certi ambiti. Non è facile valutare l’esperienza in questo campo, il digitale. Questo porta al proliferare di super-fuffa-fanta-guru, li chiamo io. Li chiamo anche ‘Mangiafuoco’. La metafora calza bene. Mangiafuoco chiamava sul carro i ragazzi dalle strade per portarli nel paese dei balocchi dove diventano tutti asini, ma lui continua a far soldi perché c’è chi vuole vedere comunque quel teatrino. Nel digitale c’è un proliferare di improvvisati perché il mercato è in crescita e chiede risorse difficili da trovare. Come valutare e riconoscerli? Non è facile, perché anche i risultati prodotti non sono tangibili. Se ti faccio crescere una pagina Facebook non sai quanti fake ci sono in quel numero di fan gonfiato. Nè puoi sapere con certezza quanto certe azioni abbiano convertito monetariamente, etc. Altra cosa sarebbe per un programmatore, dove puoi toccare con mano il lavoro fatto senza imbrogli.
Grazie a Marco Camisani Calzolari da Il Giornale Digitale.
[Credits photo: Marco Camisani Calzolari]