La maternità è una certezza bilaterale, sia per quanto riguarda la donna, sia per il figlio che si porta in grembo. Sembra quindi innaturale tagliare questo filo che da sempre lega gli esseri umani in una catena imperfetta, di possibilità e di negazioni, di vita e di morte. La tecnologia sta cambiando però il concetto stesso di maternità, introducendo nel processo del concepimento la maternità surrogata, volgarmente conosciuta anche come “utero in affitto”. Un metodo utilizzato per problemi di sterilità, di salute o per impossibilità di concepimento (come nel caso delle coppie omosessuali) con cui si affida il proprio ovulo, fecondato in vitro, così come la gestazione e il parto a un’altra donna, pagata per portare avanti la gravidanza al posto della madre naturale. Un processo molto complesso, che se da una parte sconvolge le certezze e le leggi naturali, dall’altra non fa che riparare gli anelli di quella catena difettosa. Sono necessarie però forme di tutela per tutti i diretti interessati al concepimento, per far sì che non vi sia alcuna forma di sfruttamento o di rischio.
Ci si chiede però se sia davvero lecito usufruire della tecnologia per variare le leggi naturali, correggendo gli errori e dando a tutti la possibilità di generare. Ci si chiede se non sia in realtà il caso di lasciare che la catena rimanga difettosa, rispettando i ritmi naturali, rinunciando alle proprie esigenze di essere umano. Eppure se la possibilità di coronare il proprio sogno di diventare genitori non manca, perché non mettere in pratica le possibilità che lo sviluppo tecnologico mette a disposizione? I vari tipi di maternità, inclusa la non maternità, sono una scelta vincolata dalla libertà di ogni singolo essere umano, ma che non viene tutelata dalla legge. Sì, perché la maternità surrogata sembra essere un tabù in Italia, o meglio, una di quelle questioni di cui tutti sono a conoscenza, ma su cui lo Stato si rifiuta di legiferare. Un campo minato di svariate posizioni ideologiche, in cui grava la questione di natura etica, a cui si aggiunge la potente spinta religiosa, che si oppone e non previene situazioni illegali.
Eppure per gli osservatori, quello della maternità surrogata sarebbe un fenomeno in crescita, incentivato da centinaia di coppie che scelgono di avere figli con gli ovuli di una donatrice e il grembo di un’altra donna. Lo stesso dna, ma una variazione nel processo di gestazione, che non viene però accettato come tale. O almeno, non Italia. Così, aspiranti mamme e papà partono per i paesi dove la maternità surrogata è legale: alcuni Stati americani, il Canada, la Russia, l’Ucraina e l’India e con alcune limitazioni anche l’Inghilterra hanno infatti dato il via libero a questo processo, che in Italia però incontra numerosi problemi legali. Ogni anno circa 100-150 coppie vanno all’estero (una stima, non ci sono dati meno generici) per cercare un figlio affidandone la gestazione a donne pagate per portare avanti una gravidanza non altrimenti possibile.
D’altra parte però questo processo di concepimento è visto anche come un business che va al di là del semplice desiderio materno. Per avere un figlio da mamma a tempo determinato occorrono cifre consistenti: fino a 120 mila euro negli Stati Uniti, 30-40 mila euro in Ucraina. Solo 25 mila in India. Un affare da milioni di euro che serve a garantire la filiera di documenti, l’assistenza sanitaria e le tutele legali. Resta però l’incubo del ritorno, del procedimento penale, così come la possibilità reale di perdere il figlio a causa di decisioni istituzionali, che cambiano di volta in volta senza dare alcun tipo di certezza. A causa della mancata tutela dello Stato italiano, molte coppie sono costrette a falsificare documenti e commettere reati per poter portare i figli a casa dai paesi in cui sono stati generati. Si rischia però fino a 15 anni di carcere per il reato di alterazione di stato, ovvero la falsa dichiarazione del certificato di nascita. Un processo che lede gli stessi figli, che rischiano di essere sballottati da una parte e dall’alta, perdendo la propria identità una volta cresciuti, ma anche la stessa libertà e possibilità di generare e mettere al mondo una nuova vita. Eppure il fine non sembra giustificare i mezzi per chi fa delle proprio certezze e concezioni datate l’ideale della propria esistenza.
Si viene al mondo con poche certezze e si attraversa la vita chiedendosi ogni giorno il senso di questa esistenza. Le mancanze, i vuoti e la brama di sapere non sembrano mai colmarsi e con il passare del tempo l’avanzare della tecnologia e le scoperte in grado di rivoluzionare il modus vivendi collettivo, tagliano le radici di quelle piccole certezze conquistate, quelle a cui ci si aggrappa per sopravvivere e di cui veniamo a conoscenza insieme al primo respiro, stringendo il dito di chi ci ha messo al mondo. Nasciamo e cresciamo, appoggiandoci a due pilastri indispensabili, come frutto di una genitorialità che un tempo era un semplice atto naturale e che oggi sta subendo una trasformazione che fa paura. Quando non si hanno delle risposte soddisfacenti, non si è pronti ad accumulare punti di domanda e si teme che un minimo cambiamento possa sconvolgere l’equilibrio che tutti cerchiamo. Come se non bastasse, vi è anche una complessa questione etica, politica e religiosa che fa da sfondo a una problematica aperta che sembra perdere di vista l’elemento più importate: la libertà di essere donna.
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