Michele Dalai è nato a Milano nel 1973. AD di Baldini & Castoldi, giornalista professionista, scrive per varie testate e ha collaborato con radio e televisione. Autore del romanzo Le più strepitose cadute della mia vita e del pamplhet Contro il tiqui taca. Questa estate ha condotto il programma Selfie su Radio2 con Camilla Raznovich. Interista praticante, batterista con un buon tiro, almeno così dice.
Qualche complimento reciproco e una serie di battute per iniziare. Per me, Michele, è un punto di riferimento: personaggio eclettico, autore, manager, politico, conduttore radiofonico, editore, musicista. Mi scappa subito una battuta:
“Sai Michele, sto leggendo Le più strepitose cadute della mia vita e ho appena scoperto di averti inconsapevolmente plagiato in Domani no. Anche io racconto la storia di un cantante, e anche io ho ricordato diversi fenomeni della musica italiana. Certo, non sono arrivato a citare I ragazzi italiani come te…”
“Tu hai fermato l’abisso della tua vergogna molto prima” – mi risponde ridendo.
La nostra chiacchierata inizia così, come tra due che si conoscono da tempo. Più che un ritratto, un selfie. E da qui partiamo…
Allora, Michele, come giudichi l’esperienza radiofonica in Selfie?
È stata una bella esperienza perché non possedevo in senso assoluto questo tipo di pratica radiofonica. Mi mancava l’idea del quotidiano, il dover preparare due ore di trasmissione per un pubblico complesso da approcciare. Un pubblico, quello di Radio 2, attento al parlato, che ha sete di notizie ma anche una certa esigenza formale. Il che non vuol dire che sia politicamente corretto, ma politicamente intelligente sì. Abbiamo avuto come ospiti giornalisti di ogni orientamento, dimostrando che è possibile non averne, da Giuseppe De Bellis da Il Giornale a Daniele Bellasio del Sole 24 Ore.
Insomma è stata un’esperienza molto interessante con la consapevolezza che è stato un esperimento estivo, quello con cui le grandi radio tendono a testare le voci, l’affiatamento, i progetti, quindi lo considero un pezzo di vita divertente in più, anche se usare la parole fatica quando si parla delle nostre professioni (Michele sorride) è indignitoso, me ne rendo conto. Certo è che dopo la stagione della casa editrice nelle uniche tre settimane di vacanza ho preferito l’esperienza in radio, e sono contento così.
Come ti sei trovato al fianco di Camilla Raznovich?
Ci conosciamo da tanto tempo, in molti pensavano fosse sparita ma lei in realtà ha continuato a fare tante cose, e bene. Ha lavorato sul web, sul satellite, e assieme a me ha fatto un po’ di riscaldamento in vista della domenica di Rai 3. Camilla è una grande professionista, mi sento fortunato ad aver condiviso questa esperienza con lei.
Come fa Michele Dalai a spaziare con tanta nonchalance dal romanzo alla musica, al calcio? Te lo chiedo perché nel mio piccolo lo faccio anche io ma vorrei sentire la risposta di uno serio.
Ci sono due risposte, una ufficiosa e una ufficiale. La prima è questa: assumersi il rischio di non prendersi sul serio ti permette di fare tante cose, di non spaventarti di forme di comunicazione che magari non maneggi come quelli più bravi, ma di cui conosci i rudimenti. Questo ti permette di fare le cose sperimentando e divertendoti, il che è una gran figata. Quella ufficiale invece è ancora più semplice: ho la sensazione, come penso l’abbia anche tu, di continuare a fare la stessa cosa declinando in tanti modi un principio e un verbo molto semplice: comunicare. Giuro che non è una parolaccia.
Nei tuoi romanzi, sopratutto in Le più strepitose cadute della mia vita, torna spesso la musica: ti senti un pessimo pianista o un mediocre batterista?
Sono un batterista decente con un buon tiro, sono stato un pianista rovinato dalle lezioni private di pianoforte prese da una signora di novantasettemila anni quando ne avevo 10 che hanno contribuito a farmi andare di traverso lo strumento.
Dopo “Contro il Tiqui Taca” odi ancora Il Barcellona o c’è qualche nuovo nemico tipo che so, il Bayern Monaco?
Premetto che le passioni calcistiche sono molto belle quando sono positive, l’odio è una cosa che mi hanno appiccicato addosso. Il libro recita, nel sottotitolo, Come ho imparato a detestare il Barcellona. Perciò è tutta colpa di Cristian Rocca che ha chiamato il suo articolo “Odio il Tiqui Taca”. Scherzi a parte, io trovo che il tiqui taca sia una porcata immensa e d’altronde l’ha detto anche Guardiola che è noiosissimo. A me piace la dimensione umana del calcio, quella che, per intenderci, in Italia facciamo fatica a ritrovare. Amo il calcio quando è uno sport, un gioco fatto da persone e non una deriva parastatalburocratica fatta di salottini, complottini, movimentini. Odio per esempio il movimento del calcio italiano che ha espresso questo colpo di genio di Tavecchio.
A proposito, si può dire invece che la tua Inter, con Mazzarri, è diventata un po’ troppo umana? Quasi una gran rottura di…
(Lo dice). Siamo tuttora orfani e reduci di una sbornia colossale che è durata qualche anno. Anni in cui, forse perché si era azzerata la concorrenza, abbiamo spadroneggiato ovunque. Poi ci siamo rifiutati di costruire. Ho avuto la fortuna di conoscere Mazzarri l’anno scorso, di chiacchierarci a lungo, e ti dirò che è una persona molto piacevole. È di fronte ad una missione diversa da quella a cui è abituato, forse non ha ancora capito cosa maneggia veramente. Ciò nonostante, ritengo che l’anno scorso sia stato eroico perché con il materiale umano di cui disponeva, la società allo sfascio e una lite tra vecchia e nuova proprietà di cui temo noi abbiamo percepito solo la punta dell’iceberg, ma deve essere stata tremenda, è quello che ha tenuto le fila di tutto. Noi tifosi gli abbiamo perdonato i risultati e la noia di certe partite, cosa che quest’anno non accadrà. Nonostante Ausilio abbia fatto nuovamente un mercato con zero euro. Al momento sono dubbioso, abbiamo una squadra con troppi incontristi e un regista che temo molto perché è bolso (termine milanese), Hernanes, che rende la squadra prevedibilissima.
In compenso vi siete levati dalle scatole Alvarez…
L’euforia della sua cessione durerà a lungo. E questo ha rischiato di giocare la finale dei Mondiali.
Cambiamo argomento e parliamo di Michele Dalai editore: come si affronta la crisi del mercato del libro?
In Baldini e Castoldi si affronta avendo una prospettiva diversa del mercato. Non è più tempo di numeri gonfiati, di grandi tirature, di quantità di libri che si muovono per far felici i trasportatori ma poi ti tornano in resa. È molto più interessante capire dove sta il mercato dei libri, chi legge davvero. Bisogna aiutare i librai che sono spaventatissimi e sono il nostro unico vero terminale, prima ancora di Amazon e dei distributori. I librai non sono in via d’estinzione, noi lavoriamo con loro e per loro.
Mi è giunta voce che Enrico Brizzi l’hai scoperto tu. È vero?
Ecco, queste sono le cose che fanno incazzare gli scrittori. No no, Enrico si è scoperto da solo. L’ha pubblicato Canalini di Ancona con Transeuropa, ottenendo già con la prima tiratura un discreto successo. Io l’ho scoperto a Bolonga in un tour (ero andato lì a bere, avevo 19 anni) e l’ho proposto a mio padre che aveva già venduto tante copie col marchio Baldini & Castoldi grazie a Gino e Michele e la Tamara. In realtà pensavo a Brizzi per un secondo romanzo. Non sapevo che si potessero acquisire i diritti di un romanzo già pubblicato. Mio padre invece, per prima cosa, ha ripubblicato Jack Frusciante è uscito dal gruppo in edizione tascabile, ed ha avuto ragione superando il milione e mezzo di copie. Poi sono venuti Bastogne e altri due libri. Oggi Enrico è uno degli scrittori più bravi d’Italia e noi siamo contenti quando torna da noi.
Se invece ti chiedessi due nomi di autori promettenti?
A parte noi due… (stavolta rido io ndr) quelli bravi sono Fabio Genovesi, più che promettente un talento enorme, ancora non riconosciuto del tutto in Italia per quello che vale. Il suo morte dei marmi è un miracolo di humor. Poi dico Marco Missiroli, autore giovane (all’italiana, è del 1981), genio puro. E comunque, anche nell’editoria vale la regola del rap: chi vende ha ragione, inutile star qui a far elucubrazioni. I libri devono finire in mano ai lettori.
Un’ultima domanda: Linus (il fumetto) come sta?
Bene, grazie. Ha sofferto molto, come noi, nel passaggio da una gestione all’altra della casa editrice. È stato fuori dalle edicole per un mese e avendo un pubblico molto attento, ha patito. Un pubblico intelligente, ironico, che ci ha fatto scontare questo passaggio. Adesso Linus vende di nuovo bene, ha ritrovato i suoi abbonati, è un progetto transgenerazionale, lo leggono nonni e nipoti. È una bella storia da raccontare. E noi ci teniamo a queste storie.
Di politica parliamo un’altra volta, ok?
Il mio numero ce l’hai.
Lo ringrazio con la promessa di risentirci in caso di nuovi progetti. Di sicuro Michele Dalai ne ha già mille in testa.
Credits Cover: foto gentilmente concessa da Michele Dalai