C’è un (sotto)genere, al cinema, che più di molti altri, fatica a passare di moda: quello dei thriller fantapolitici. Carichi di attualità e sospinti da una forza drammatica che prende le mosse da fatti e situazioni contemporanei, gli adattamenti delle opere dei vari Tom Clancy, John Grisham e Ken Follett si sono sempre difesi sia in termini di qualità che sul versante degli incassi.

In tempi più recenti, il (sotto)genere in questione, sempre attentissimo alla direzione del vento della storia (che adesso soffia da sud-est) si è fatto ancora una volta sotto: e se Argo e Il quinto potere fanno leva su libri di storia minori o celeberrimi leaks, uno dei suoi ultimi rappresentanti, A Most wanted man (affiancato in Italia dal banalissimo La spia) nasce dalla mente di uno che per i maestri sopracitati ha rappresentato una sorta di Bibbia: John le Carrè. E il protagonista della trasposizione del romanzo è un certo Philip Seymour Hoffman.

Hoffman interpreta Günther Bachmann, un agente segreto che fa base ad Amburgo (una delle città europee maggiormente sotto controllo dopo l’11/9) che indaga su una giro di denaro volto a favorire una rete terroristica jihadista. I ricercati sono due: il giovane ceceno Issa Karpov (Grigoriy Dobrygin) e soprattutto Faisal Abdullah (Homayoun Ershadi). Ad aiutarlo ci saranno un ambiguo banchiere, Tommy Brue (Willem Dafoe) e l’ambasciatrice statunitense Martha Sullivan (Robin Wright).

Liberiamo il campo dai dubbi: non fosse per il cast, letteralmente da urlo, A most wanted man ce lo dimenticheremmo appena usciti dalla sala, tanto poca è la tensione che lo accompagna. Hoffman è accompagnato da Robin Wright, che ha preso gusto nel fare il ruolo della burattinaia, da Rachel McAdams, dal sacrificatissimo Daniel Brühl e da Willem Dafoe (il 2014 è l’anno della sua rinascita professionale). Poi ci sono altre due presenze meno eloquenti per il pubblico occidentale ma non meno ingombranti (nel senso positivo del termine): il giovane russo Grigoriy Dobrygin e il meno giovane iraniano Homayoun Ershadi.

Una squadra eterogenea ben guidata da Corbijn, che come in The American fa valere le sue qualità da videomaker (storico regista dei video dei Depeche Mode), innamorato (ma con distacco) della camera a mano e dotato di una gestione equilibrata della gamma cromatica e degli ambienti (bei contrasti chiaro/chiuso-scuro/esterno) con cui si presenta l’impianto scenico.

Poi, soprattutto, c’è Hoffman. Ogni fotogramma che lo accompagna è un piacere un’imprecazione: per quello che ci ha regalato e per quello che ci siamo persi. Non c’è molto altro da dire su quello che questo artista della scena ha espresso nei velocissimi vent’anni di carriera, la banalizzazione sarebbe quasi inevitabile. Eppure, come tutti i classici di qualsiasi campo e di qualsiasi genere, le performance di Philip Seymour dialogano con chi vi assiste, riportando alla mente, a loro volta, altri classici.

Il classico, in questo caso, ce lo suggerisce il meraviglioso, impressionante, accento tedesco sfoderato da Hoffman – senza snobbare il lavoro di doppiaggio dell’eccellente Pannofino -, all’altezza di quello con cui Laurence Olivier marchiò oltre 35 anni fa un altro thriller (distopico), I ragazzi venuti dal Brasile.

É lui, Philip Seymour, il valore aggiunto di un film involuto, con poco mordente e che nulla aggiunge al genere.

[Ph. Credits: Benoît Delhomme]