È davvero strano come si parli molto di un allenatore e niente dei giocatori che dovrà allenare.
Eppure la crisi del calcio italiano e della Nazionale, eliminata per il secondo Mondiale consecutivo ai gironi, è di giocatori, non di tecnici. Quando Sacchi prese in mano la Nazionale fu criticato perché convocò 95 giocatori, un esercito.
Conte ne potrà provare non più di un terzo. Siamo usciti dai Mondiali al primo colpo nel giro di quattro anni non tanto per le colpe di Lippi e Prandelli, ma perché i loro miracoli non avrebbero potuto coprire due squadre modeste.
Può darsi che sui campi di periferia mentre scrivo stiano già correndo i nuovi Baggio,Totti,Del Piero, ma l’impressione è più seria. Compriamo solo all’estero, facciamo giocare quasi solo stranieri. Sacchi ha un’ottima memoria, ma dimentica che al suo tempo di stranieri ce n’erano due per squadra. Non esisteva la legge Bosman che dal 1995 consente ai calciatori professionisti aventi cittadinanza nell’Unione Europea di trasferirsi gratuitamente a un altro club alla scadenza del contratto con l’attuale squadra e non esistevano i ‘magnati‘ del calcio: i vari Roman Abramovič, Erick Thohir e gli sceicchi Khaldoon Al Mubarak al City e Nasser Al-Khelaïfi patron del Psg.
Sentendo questi nomi, si capisce il mutamento che nell’ultimo decennio si è accentuato senza freni: il calcio è diventato un business e le società sono gestite alla pari delle aziende: devono produrre, non solo risultati sul campo, ma anche apportare ricavi sul piano del merchandising e delle vendite.
In Italia la Nazionale non è il male del calcio, ma solo un sintomo. Sono le società ad essersi impoverite, per volontà autonoma, per crisi generale e per l’arrivo di una decina di ‘Grandi Ricchi‘accomodatisi in Europa, triplicando la posta per sedersi al tavolo.
In queste condizioni è normale comprare soltanto all’estero, puoi scegliere fra tre-quattromila giocatori, il prezzo medio si abbassa.
In Italia puoi scegliere fra una decina, il prezzo diventa altissimo. Ma se giocano solo gli altri, i nostri non fanno massa, non cresceranno mai costretti a trasferirsi in campionati di altre nazioni per avere qualche chance di carriera. Il punto più basso del calcio italiano si ebbe nel 1966, sconfitta con la Corea del Nord ai Mondiali inglesi. Prima reazione, chiusura agli stranieri. Quattro anni dopo arrivammo in finale con il Brasile.
Punto più alto del nostro calcio l’82, giocava un solo straniero. Poi il ’94 di Sacchi, dopo di che si sono aperti i cancelli e le importazioni sono andate sempre aumentando.
Nel 2006 avevamo ancora giocatori di prima della legge Bosman. Non contano le tattiche, gli schemi. Il 4-2-3-1 è il più internazionale perché è il più semplice, spezza le squadre in due.
Non è nemmeno un problema di tare ereditarie italiane: il calcio è da ottant’anni nettamente al di sopra delle qualità del paese. È un semplice problema di mancanza di uomini, ed è autodeterminata.
Non dico di chiudere le frontiere, è un’utopia, ma è indubbio che la miseria nasce da quell’eccesso.
Finché non sarà trovata una soluzione, finché rifiuteremo perfino di discuterne, non avremo più un movimento, ma solo una lunga serie di linee interrotte.
A Conte daranno il tempo di trovare squadra e gioco. E forse anche qualche uomo vero.