Sono passati esattamente quarant’anni dalle dimissioni di un presidente degli Stati Uniti d’America, primo, e finora unico. Il presidente di cui stiamo parlando è Nixon, che a 61 anni, a metà del secondo mandato presidenziale, rassegnò le dimissioni in seguito allo scandalo Watergate che si sviluppò nel contesto politico del proseguimento della guerra in Vietnam, sempre più impopolare fra la gente e le forze economiche da essa fortemente penalizzate. Lo scandalo durò circa due anni, con un Nixon che cercò di resistere alle difficoltà politiche sempre più pressanti, ma che l’8 Agosto del 1974 fu costretto a dimettersi.

Per riportare alla memoria la vicenda, ricordiamo che il tutto iniziò con “un’invasione” di uomini legati al Partito Repubblicano, al quale apparteneva Nixon, al quartier generale del partito democratico all’hotel Watergate.
La notte del 17 giugno 1972, Frank Wills, una guardia di sicurezza che lavorava nel complesso di uffici del Watergate Hotel a Washington, vide un pezzo di nastro adesivo che teneva socchiusa la porta fra il pozzo delle scale e il parcheggio sotterraneo. Wills lo tolse, convinto che fosse stato messo dall’impresa di pulizia, ma, ripassando più tardi, si accorse che il nastro era stato rimesso. Così Wills si insospettì e contattò la polizia di Washington.
Dopo che la polizia arrivò, cinque uomini furono scoperti ed arrestati per essersi intrufolati nel quartier generale del Comitato nazionale democratico, la principale organizzazione per la campagna e la raccolta fondi del Partito Democratico. Fu accertato che gli stessi erano entrati in quell’ufficio anche tre settimane prima, erano tornati per riparare alcune microspie telefoniche che non funzionavano e, secondo alcuni, anche per fare delle fotografie.

La necessità di tornare nell’ufficio fu solo il più lampante di una serie di grossolani errori commessi. Un altro si rivelò determinante, quando la polizia lo scoprì, cioè il numero telefonico di E. Howard Hunt, (che aveva precedentemente lavorato per la Casa Bianca) sul blocco note di McCord, uno dei cinque (ufficialmente impiegato come capo della sicurezza al Comitato per la rielezione del presidente, CRP). Questa incauta annotazione, fece pensare che esistesse un legame fra i gli uomini dell’assalto e qualcuno vicino al presidente.

A poco servì che l’addetto stampa di Nixon classificasse l’affare come un “furto di terz’ordine”. E, nonostante lo scasso fosse avvenuto in un momento sensibile, con la campagna elettorale all’orizzonte, molti americani inizialmente pensarono che nessun presidente, col vantaggio che Nixon godeva nei sondaggi, sarebbe stato così scriteriato e senza etica da rischiare di essere collegato a un affare del genere. Una volta accusato, però, McCord fu identificato come un agente della CIA in pensione e l’ufficio del procuratore distrettuale di Washington riuscì ben presto a dimostrare che aveva ricevuto pagamenti dal CRP.

L’8 gennaio 1973, il gruppo dei cinque, insieme a Liddy e Hunt, registi delle intrusioni all’hotel Watergate, e di molto altro, come verrà scoperto pin un secondo momento, furono processati . Tutti, tranne McCord e Liddy, si dichiararono colpevoli, e tutti furono condannati per cospirazione, furto con scasso e intercettazioni telefoniche.

Durante le udienze del Comitato senatoriale su Watergate, il senatore repubblicano Howard Baker pose una domanda divenuta memorabile “Cosa sapeva il Presidente e quando venne a saperlo?”.
Fu così chiesto ad Alexander Butterfield, vice assistente al Presidente, se esistesse alla casa Bianca un qualche sistema di registrazione. Butterfield, anche se con riluttanza, dovette ammettere che un sistema di registrazione automatica esisteva nello Studio Ovale. I nastri furono così immediatamente richiesti come prova determinante per verificare la posizione di Nixon. Questi rifiutò, e anzi ordinò a Cox, il procuratore speciale che si occupava delle indagini, di lasciar cadere la sua citazione in giudizio. Il rifiuto di Cox portò al cosiddetto “massacro del sabato sera” (20 Ottobre 1973) e al suo licenziamento.
Nixon, nonostante la famosa frase “I’m not a crook” (“Non sono un imbroglione”) pronunciata il 17 Novembre davanti a 400 editori dell’Associated Press, fu, comunque, costretto a permettere l’insediamento di un nuovo procuratore speciale, Leon Jaworski, che continuò le indagini.

Nixon insistette nel rifiutarsi di fornire i nastri delle conversazioni, ma rilasciò un numero rilevante di trascrizioni degli stessi che provocarono ulteriore imbarazzo, quando si venne a sapere che una parte cruciale di un nastro era stata cancellata. Inutile il tentativo di farlo passare per un errore accidentale della segretaria di Nixon che, pure, si addossò la colpa. Venne dimostrato in seguito, infatti, che il nastro era stato cancellato, in quel punto, per ben nove volte!
La “questione dei nastri” arrivò così alla Corte Suprema che il 24 Luglio 1974 dichiarò all’unanimità inammissibile il rifiuto di Nixon e gli ordinò di consegnarli a Jaworski. Il 30 Luglio, il Presidente eseguì l’ordine.
In Agosto venne scoperta una cassetta registrata il 23 Giugno che riportava una conversazione tra il presidente Nixon e il Capo di Staff della Casa Bianca, H. R. Haldeman. I due studiavano un piano per ostacolare le indagini: la CIA avrebbe dovuto convincere l’FBI che si trattava di una questione di sicurezza nazionale. Infatti il crimine, e numerosi altri “giochetti sporchi”, erano stati intrapresi a vantaggio del CRP, soprattutto sotto la direzione, come già detto, di Hunt in coppia con George Gordon Liddy. I due avevano lavorato alla Casa Bianca nell’unità speciale di investigazione soprannominata “gli idraulici” (plumbers). Questo gruppo lavorava sulle fughe di notizie che l’amministrazione non voleva fossero conosciute pubblicamente e aveva condotto varie operazioni contro i Democratici e gli oppositori alla guerra in Vietnam.
La scoperta di questa registrazione fu definita dalla stampasmoking gun” (una pistola ancora fumante) e portò con sé la certezza di un impeachment per il Presidente che, giunto a questo punto, dette le dimissioni quattro giorni dopo, l’8 agosto 1974.
“A salvare Nixon dal peggio, la grazia firmata dal suo successore, Ford, per pacificare un Paese spaccato” scrive Gianni Riotta su “La Stampa” di lunedì 4 Agosto.

A questo punto, vorrei ricordare che il merito di aver tenuto sotto la luce dei riflettori lo scandalo Watergate fino alla fine, spetta a due giornalisti del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein, che iniziarono una loro investigazione sullo scasso all’hotel Watergate. C’è da dire che molto di ciò che i due giornalisti pubblicavano era noto agli organi investigativi governativi, anzi, talvolta questi costituivano proprio le loro fonti! Ma, come si diceva sopra, con i loro articoli, Woodward e Bernstein mantennero vivo l’interesse dell’opinione pubblica sugli eventi, impedendo di fatto che cadesse nell’oblio.
A distanza di quarant’anni, uno dei due giornalisti che condussero il Washington Post agli scoop, Bob Woodward, distinto ex ufficiale dello spionaggio della Marina USA, rilegge per il Post le riproduzioni dei nastri di Nixon, contenute in 700 pagine dall’ex consigliere repubblicano John W. Dean. Il saggio “ the Nixon defense” costituisce un pesantissimo atto d’accusa, perché dai nastri emerge un Nixon antisemita, razzista e sprezzante contro le minoranze, compresi noi italiani.

A conclusione del suo articolo, Riotta, ricordando le disavventure famigliari, e non solo, toccate in sorte ai due giornalisti, si chiede se ciò possa costituire una rivincita di Nixon, quarant’anni dopo dall’Al di Là dei Leader, ma scrive: “…No: perché senza quei maledetti nastri sarebbe uno stratega storico, e non un crook, un lestofante costretto a dimettersi.”