Malala Yousafzai ha solo undici anni quando decide di alzare la voce, per difendere chi nel suo paese non ce l’ha. E ne ha quindici quando, in un giorno come tanti, mentre torna a casa da scuola, il proiettile sparato da un talebano tenta di ucciderla. Ma è stato proprio quel proiettile a cambiare il suo destino. Trasformando un’adolescente che in un diario alla BBC raccontava come nel suo paese una fatwa impedisse alle ragazze di studiare, in una paladina per i diritti umani e nella persona più giovane della storia a ricevere il Nobel per la Pace, un premio che condividerà con Kailash Satyarthi, l’eroe indiano della lotta contro il lavoro minorile. “Per il loro impegno contro la sopraffazione nei confronti dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini a un’istruzione”, si legge nella motivazione di un premio che mai come quest’anno avrà un valore simbolico esemplare: due attivisti, l’una musulmana, l’altro hindu, provenienti da due Paesi nemici, come India e Pakistan, il loro impegno a favore dei diritti dei bambini. Un fil rouge che unisce, oltre ogni differenza, oltre ogni rivalità.

«Avevo solo due opzioni: restare in silenzio e farmi ammazzare o alzare la voce contro i tiranni e farmi ammazzare: ho scelto la seconda».

Di persone coraggiose che alzano la voce ogni giorno contro violenza, discriminazione, omertà e indifferenza, ne è pieno il mondo. Malala è una di loro. Così piccola eppure abbastanza grande da sfidare, con la forza della sua innocenza, l’oscurantismo di un regime che nega i diritti più elementari. Forse noi occidentali non arriviamo a capirlo, ma ci vuole coraggio, tanto coraggio a urlare «no», a ribellarsi, in un paese in cui nascere donna è quasi come una condanna a morte. E Malala la morte l’ha sfidata in quel 9 ottobre 2012, quando due proiettili la colpiscono al collo e alla testa, lasciandola a terra. Perché? Diffonde idee occidentali pericolose e “oscene” contro l’Islam. Idee come queste: «Se alle nuove generazioni non verranno date penne, i terroristi daranno loro le pistole». Così Malala Yousufzai scriveva, sotto lo pseudonimo di Gul Makai, sul ‘Diary of a Pakistani Schoolgirl’. Dal suo blog, ogni giorno, per tre anni, denuncia il divieto all’istruzione femminile imposto alle bambine nella valle di Swat, raccontando al mondo l’angoscia di quei giorni, la guerra, la paura di andare a scuola e di indossare la divisa o vestiti troppo colorati per non dare dell’occhio, e della voglia di studiare che era più forte, nonostante tutto. Perché lei, poco più che bambina, lo aveva intuito prima ancora degli adulti: l’estremismo non si combatte con la violenza, ma con la forza dell’istruzione. Al posto di bombe e pistole, solo penne e libri. I Talebani le sparano per metterla a tacere per sempre. Le ferite sono gravi, ma lei non molla, sopravvive e diventa ciò che il regime temeva di più: un simbolo, una speranza. In quel momento comincia la seconda vita di Malala Yousafzai. Quella che l’ha condotta, nemmeno un anno dopo, alla pubblicazione di un libro di memorie, dal titolo “Io sono Malala”, e a quello storico discorso alle Nazioni Unite, il 12 luglio 2013. Nel giorno del suo sedicesimo compleanno Malala prende la parola davanti all’assemblea giovanile dell’ONU e al segretario generale Ban Ki-moon. In piedi in una grande sala, con indosso lo scialle rosa appartenuto a Benazir Bhutto, leader del Partito Popolare Pakistano, uccisa nel 2007, parla con voce forte e decisa e ai Talebani dice: «Pensavano che le pallottole potessero zittirmi. Ma non ci sono riusciti. Pensavano che avrebbero cambiato i miei obiettivi e fermato le mie ambizioni, ma nulla è cambiato nella mia vita se non questo: debolezza, paura, sfiducia sono morte. Al loro posto sono nate forza, determinazione, coraggio». Parole pesanti, da adulta. Parole che commuovono il mondo.

A distanza di due anni da quel 9 ottobre 2012 Malala non ha mai smesso di far sentire la sua voce. Mentre a Oslo le assegnavano il Premio Nobel, lei era a scuola, come sempre, a Birmingham, la città in cui vive, da quando è scampata all’attentato. La sua battaglia affinché l’istruzione diventi un diritto universale, per tutti i bambini e le bambine del mondo, continua, anche se lontano dal suo paese. Le pallottole non hanno fermato i suoi sogni. Quelli sono rimasti gli stessi. Sogni di pace, di uguaglianza e di istruzione per tutti, indistintamente. «Il saggio che diceva “La penna è più potente della spada” aveva ragione». Prendiamo in mano la nostra arma più potente: la conoscenza. Non arrendiamoci, andiamo avanti. Perché «Un bambino, un insegnante, una penna e un libro possono cambiare il mondo». E forse, grazie a questa giovane coraggiosa donna, oggi sappiamo che è vero.

«Sedermi a scuola a leggere libri è un mio diritto. Vedere ogni essere umano sorridere di felicità è il mio desiderio. Io sono Malala. Il mio mondo è cambiato, ma io no»

[Credit Photo Cover: Mark Seliger per TIME]