Viviamo nel paese della ‘mamma’, quello in cui Dolce e Gabbana hanno deciso di lanciare una intera collezione di abiti e gonne con la scritta ‘Mamma ti voglio bene‘. Si potrebbe accettare chi non vuole avere figli? O peggio, come comprendere il pensiero di tutte quelle donne che desiderano unicamente ritornare alla vita vissuta prima di procreare?
Il rifiuto ab origine della maternità è un tema poco dibattuto e scarsamente trattato dai mass media italiani. Il motivo? Una società estremamente conservatrice che tende a difendere i suoi pilastri più longevi, in questo caso l’idea di una famiglia tradizionale, considerata un traguardo da tagliare a tutti i costi, pena l’etichetta ‘difetto di fabbrica‘ da appendere alla giacca. La donna che non manifesti il desiderio di maternità, o che addirittura lo rifiuti in assoluto, è oggetto di perpetue congetture sulle sue motivazioni psicologiche: sarà incapace di trovare il partner adatto? Non ama le relazioni stabili? Non è una persona affidabile? È egoista o troppo indipendente? Odia i bambini?
Il dottor Roberto Pani, psicoterapeuta specialista in Psicologia Clinica e professore presso l’Università di Bologna, ha analizzato nel dettaglio il fenomeno e ha dichiarato:
“Le donne che rifiutano l’idea di maternità sono più di quante si possa immaginare; molte di esse sono incapaci di confessarlo persino a se stesse e la maggior parte non oserebbe dichiararlo ad alta voce nemmeno in presenza di una persona amica. Nella mia esperienza clinica ho ascoltato molte storie, alcune davvero impossibili da raccontare, che mi hanno portato a stabilire che i motivi che portano a non desiderare la prole sono di vario ordine. In molti casi l’origine di questo pensiero è da ricercare nelle mamme delle donne che scelgono di essere childfree: si tratta di genitrici troppo materne, protettive e anche un po’ invadenti.”
Il rapporto con la propria madre influenza di fatto la futura maternità in modo incisivo: gli psicologi parlano in alcuni casi di ‘regressione infantile‘, ovvero quella primissima fase di fusione psicologica che la gestante vive col feto all’inizio della gravidanza. In questo preciso spazio temporale la futura madre rivive le proprie personali dinamiche di bambina e di figlia, preparandosi psicologicamente a diventare madre a sua volta.
Nel caso di madri oppressive, secondo Pani, le figlie tendono a sentirsi soffocate dalla loro onnipresenza, condizionando inevitabilmente il proprio atteggiamento interiore nei confronti di gravidanza e ruolo di madre.
Ma le difficoltà che una donna può incontrare nel mentalizzare il concetto di maternità possono avere una causa diversa da quella dell’esperienza familiare. Lo psicoterapeuta ha infatti dichiarato anche che:
“La donna childfree di qualsiasi età ragiona seguendo determinate linee di pensiero, come quelle che vedono il mestiere di madre come troppo pesante, o peggio, come condizione di vita irreversibile. Alcune donne temono il cambiamento e non sono assolutamente disposte a perdere libertà, bellezza e autodeterminazione.
Molte di esse sono spaventate dall’idea della trasformazione del corpo a causa del feto: il pensiero di perdere per sempre la forma fisica duramente raggiunta è terrificante per tutte quelle che aspirano alla perfezione estetica. Ci sono poi i soggetti ipocondriaci, spaventati dalle possibili malattie che possono colpire la genitrice a causa del feto.”
Una volta superato lo scoglio della gravidanza e del parto e accettato l’eventuale cambiamento del corpo, non sempre l’esperienza di una madre si rivela soddisfacente. Contrariamente a ciò che l’immaginario collettivo stabilisce, esiste una categoria di soggetti che eliminerebbe l’esperienza della maternità dal proprio vissuto senza battere ciglio. Si tratta di donne che hanno liberamente scelto di diventare madri, ma che, se potessero, farebbero volentieri retromarcia. E non ci si riferisce in questo caso al disturbo comune della depressione post parto, condizione che sopraggiunge subito dopo il parto ma che è destinata in quasi tutti i casi a scomparire nel giro di poco tempo, ma al sentimento provato da chi è madre da un pezzo e fatica ad accettare la propria figura materna.
Non si tratta di madri snaturate che maltrattano i figli, né di persone disamorate che non avrebbero voluto donare la vita. Le mamme ‘pentite’ amano i propri figli come esseri umani ma non si accettano assolutamente come loro madri; esse nel profondo odiano esserlo e detestano il significato sociale del proprio ruolo, pur amando e accudendo la prole come fanno tutte le altre. Soggetti di questo tipo non farebbero mai del male ai propri figli, né desiderano sbarazzarsene in senso assoluto: esse semplicemente ridisegnerebbero la propria vita senza dover calzare etichette opprimenti come quella irreversibile del genitore.
Liberarsi dai pregiudizi e confessare di aver commesso un errore scegliendo di diventare madri incarna uno dei tabù più duri da abbattere, per questa ragione chi prova questi sentimenti non riesce anche solo a farne parola: il mondo esterno, conservatore e bigotto non potrebbe mai comprendere.
La sociologa israeliana Orna Donath, ricercatrice della Ben Gurion University, nella sua opera ‘Regretting Motherhood‘ ha analizzato le testimonianze di 23 donne che, se potessero, cancellerebbero per sempre i propri figli dalla propria vita.
Ciò che emerso dallo studio è un profilo unico, composto dai sentimenti di un soggetto che non ripudia la propria prole, ma che detesta profondamente il compito di madre in assoluto, le responsabilità da esso derivanti e il sentimento di frustrazione derivante dalla impossibilità di sottrarsi ad esso.
Il dibattito ha fatto il giro del mondo, colpendo nazioni come Svezia, Finlandia, Norvegia e Germania, paese in cui la questione è stata affrontata dalle riviste più autorevoli e nel quale il tema fa discutere anche sui social network.
Il saggio si basa su 23 diverse interviste, che la studiosa ha così commentato:
‘Tutte le donne che ho intervistato non odiano i propri figli, anzi: li amano profondamente. Ciò che esse detestano è essere la loro madre, il non potere più fare retromarcia, la irreversibilità della scelta. Le donne oggetto del mio studio sono a volte nonne, a volte madri con figli adulti, a volte non sono neppure quelle che portano sulle spalle il carico dei figli perché lo fanno i mariti, eppure anche quelle sono pentite di essere diventate madri. Perché è l’evento in sé che è dirompente, sconvolgente, traumatico: una volta che si è madri non si torna più indietro‘.
Il profilo interiore di una madre pentita è piuttosto delicato; riuscire a tirare fuori sentimenti di questo tipo e accettare le proprie emozioni è quasi impossibile in casi del genere. Ciò che sorprende è il crescente numero di madri insoddisfatte a causa delle proprie scelte di vita; non si tratta di crisi d’età o di rifiuto della famiglia ma di esigenze vitali del tutto compresse da un ruolo sociale faticoso e irreversibile.
La madre che volentieri fuggirebbe lontano dal nucleo, ma che di fatto resta a proteggerlo, non è certamente un mostro: ella non è altro che un soggetto schiacciato da un compito troppo pesante e senza termini come quello del genitore.